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Si può amare chi ha sbagliato? La storia di Giuditta e Pietro

“Anche chi sbaglia merita di essere amato”. All’ingresso della loro casa Giuditta e Pietro hanno appeso questa frase di papa Benedetto XVI. La loro storia, il fidanzamento prima e il matrimonio poi, non è una storia semplice. E quella frase, “Anche chi sbaglia merita di essere amato”, ne è un po’ la sintesi. Partiamo dall’inizio. Giuditta conosce Pietro al Meeting di Rimini, qualche anno fa.

Lei è lì, in pieno agosto, come visitatrice; lui è lì, in pieno agosto, come volontario con altri detenuti del carcere di Padova. Sì, Pietro è un detenuto. Uno che ha sbagliato. Nonostante questo, i due si innamorano proprio lì, al Meeting, e cominciano a scriversi. Pietro torna in carcere, deve scontare la sua pena. Dopo tante vicissitudini e quattro anni di fidanzamento, narrati nel libro “Il cuore oltre le sbarre” (Itaca edizioni, 13 euro), il 29 marzo 2014 Giuditta e Pietro si sposano.

Giuditta, come sta andando il matrimonio?

“Le modalità particolari del nostro fidanzamento hanno dato un’impronta anche alla nostra vita dopo il matrimonio. Ha segnato il passo di questi tre anni quello che ci ha detto il sacerdote nella sua omelia quando ci siamo sposati: che la Grazia di quel giorno sarebbe bastata solo per quel giorno, e poi avremmo dovuto richiederla ogni momento, da lì in avanti. Non bastavano i Santi che avevamo smosso, ma la preghiera e il desiderio avremmo dovuto riconquistarli ogni giorno”.

Che cosa è accaduto, da allora?

“Il cammino cominciato è continuato in questi anni con il desiderio che la vita avesse un significato sempre in ogni istante, perché i progetti e i desideri non sono fioriti come avevamo in mente noi. Volevamo subito dei figli, ma dopo tre anni di figli non se ne vedono.

E’ una delle tante occasioni di un dialogo più stringente con Dio. Perché da una parte c’è la certezza di tutto il cammino fatto e dei segni ricevuti in questi anni; dall’altra l’evidenza che difficilmente poi i desideri si realizzano nei tempi e nei modi che abbiamo in mente noi”.

Si può essere “borghesi” anche con una storia così particolare?

“Anche gli avvenimenti eccezionali del passato non bastano, se io non ridico di sì a quello che accade ora”. […]

[…] Quindi non si vive di ricordi, anche se fuori dal comune…

No, assolutamente. Noi non siamo mai stati soli. Le circostanze eccezionali ci hanno insegnato che nell’obbedienza alla realtà ci si guadagna sempre. Sia prima, quando non potevamo vederci, sia ora che ci si può vedere sempre. Questo è più rischioso, ti costringe a cercare cosa riempie davvero la vita. Nella quotidianità c’è più il rischio di stare dietro alle cose da fare, senza sorprendersi del fatto che sono date da un Altro.

Come si fa a riconoscere questo “Altro”?

Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo iniziato un cammino con un gruppetto di amici e con un sacerdote, che ci ha fatto scoprire una strada viva e gustosa per condividere la vita anche nella sua più normale quotidianità. Si chiama ‘Scuola di comunità’: tutte le settimane ci sfidiamo perché gli incontri che facciamo tra di noi diventino un seguire Qualcuno, perché la vita rifiorisca.

E chi non ha questa compagnia?

Che la cerchi. Tutti abbiamo il desiderio di non essere soli nella vita, sia nel bene che nel male. Quello che io ho visto è che quando si prende sul serio questo desiderio qualcosa accade. Si riconosce in qualcuno lo stesso barlume e nascono rapporti prima impensabili.

Hai raccontato la tua storia in un libro. Non hai avuto paura di “scoprirti” troppo?

Ho cambiato solo i nomi, ma non ho censurato nulla. L’unica discrezione è stata quella di non mettere sotto i riflettori l’episodio che ha portato mio marito in carcere. Solo questo. Il libro nasce per una gratitudine alla storia che il Signore ci ha dato, e dalla certezza che quando siamo scelti per fatti eccezionali non è solo per noi, ma è come un’eredità che ci viene data per essere ridistribuita. Per cui il desiderio è quello che la sua storia possa dare una speranza certa a chiunque si trovi davanti a un dolore per un proprio sbaglio. Non vale solo per i detenuti, ma per tutti noi. In qualunque condizione siamo chiamati a dire di sì a quello che la realtà ci dona là dove ci chiama.

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