Lo “spread”, entrato nel vocabolario comune qualche hanno fa, torna prepotentemente di moda in queste settimane di stallo e tensione per la formazione del nuovo governo. Contrariamente a quanto sembra, questo termine racchiude un concetto semplice che impatta in maniera diretta sui nostri conti statali e familiari. Volendone dare una definizione, si può dire che lo spread è la differenza, quindi il divario, che c’è tra il tasso di interesse del Btp a 10 anni e quello del Bund tedesco decennale. Quando si dice che sale pericolosamente, significa, semplificando, che questo divario cresce perché il tasso di interesse sul Btp aumenta in poco tempo; nello specifico, ha avuto un incremento di oltre lo 0,7% nell’ultimo mese, portando il rendimento annuo del Buono del Tesoro intorno al 2,5%. Ma come impattano queste variazioni sui nostri conti? Noi, come è noto, abbiamo un debito pubblico molto elevato e ogni anno dobbiamo rifinanziarlo chiedendo circa 400 miliardi in titoli di Stato, che servono per pagare pensioni, stipendi, sanità, opere pubbliche e così via. Siccome i titoli di Stato sono acquistati dagli investitori sul mercato italiano e internazionale, gli operatori economici “osservano” la nostra situazione per decidere se darci credito oppure no; se la fiducia nel nostro Paese cala per vari motivi, i finanziatori potrebbero non comprare il nostro debito oppure, come avviene solitamente, lo acquistano ma “esigono” un rendimento più alto. E quindi, per il nostro Stato, aumenta pericolosamente il costo del denaro. Come previsto nel Documento di Economia e Finanza, il nostro debito costerà, in termini di interessi, circa 63 miliardi da qui al 2020; un inasprimento dello spread di un centinaio di punti aumenterà le nostre spese di circa 12 miliardi in 3 anni. Questo aumento dei tassi si ripercuote non solo negativamente sui conti dello Stato ma anche sui cittadini privati e sulle aziende che, quando andranno in banca a contrattare un mutuo, troveranno un costo del prestito maggiorato.
Davide Soro