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L’intervista a Carlo Bonini

Su Regeni il nostro Paese è a un bivio:
rompere i rapporti con l’Egitto o rimanere in silenzio

Ci sono circa 603 chilometri di distanza tra la nostra redazione e Roma. Ma sembrano molti di meno, quando contatto nella Capitale Carlo Bonini, giornalista inviato speciale di “Repubblica”, per farmi raccontare la “sua” storia su Giulio Regeni. Ne parla come fosse un caro amico, un collega o forse anche un figlio, per cui sente estremo bisogno di verità. Per il suo quotidiano ha seguito la storia del giovane ricercatore, anche con un documentario “Nove giorni al Cairo” girato in Egitto. «Giulio siamo noi» mi dice con voce decisa. E partiamo proprio da lì, dal giovane ricercatore…

Bonini, chi era Giulio Regeni?
«Era un giovanissimo ricercatore italiano cittadino del mondo, come in questi anni dopo il suo omicidio viene ricordato. Perché la sua vita, le scelte, l’entusiasmo e i motivi che lo muovevano ricordano, mi viene da dire citando un lavoro cinematografico, la nostra “Meglio gioventù”. Quella che è cittadina del mondo e nel mondo, convinta che possa essere trasformato in meglio con la forza delle idee, della ricerca e della conoscenza. Questo è il motivo per il quale Giulio e la sua famiglia sono diventati una bandiera per una parte dell’opinione pubblica italiana».

Parliamo del regime egiziano di Al-Sisi.
«È un regime militare in cui ogni libertà data all’uomo viene repressa. Quella di espressione, libera manifestazione, individuale: il dissenso viene perseguito con ogni forma. Gli oppositori o presunti tali scompaiono e poi non riemergono. Un regime che pratica la tortura. Un regime dove lo spionaggio fa parte della quotidianità di ciascuno. Un regime che trova il suo equilibrio nel consesso internazionale perché considerato l’argine più importante al contagio islamista e spartiacque dei flussi migratori africani. Un Paese abitato da gente meravigliosa che vive in un’immensa prigione a cielo aperto».

A che punto sono le indagini?
«Purtroppo le indagini sono ferme, da quasi due anni. Da quando la procura di Roma, con l’ufficio giudiziario che con grande professionalità ha condotto le indagini con l’avvocato Alessandra Ballerini, ha messo il regime egiziano con le spalle al muro: ha sottratto ogni alibi al regime, individuando funzionari dei servizi segreti e apparati di sicurezza coinvolti nel rapimento e nell’omicidio di Giulio. Di fronte a questo punto di arrivo delle indagini, per altro sostenute da elementi probatori al di là di ogni dubbio, il regime ha cessato ogni aiuto».

Quali opzioni ha il regime adesso?
«Le opzioni sono poche. Una può essere voltarsi dall’altra parte scommettendo ancora una volta sul fatto che il governo italiano non avrà la forza e la risolutezza per poter arrivare fino in fondo a questa storia. Un’altra è che l’Italia, come aveva minacciato più volte, di fronte a una mancanza di collaborazione possa mettere in discussione gli accordi bilaterali».

Possiamo parlare di “ragione di Stato”?
«Accade che un Paese democratico debba prendere delle decisioni, ma si imbatta nel cinismo della ragione di Stato, che in alcuni casi, prevale sui diritti dei singoli. Ponendo così lo Stato di fronte a un’alternativa: se piegare un rapporto diplomatico o piegare il diritto di un cittadino per un interesse. Non è una scelta facile, ma è una scelta da cui uno Stato definisce se stesso, non solo agli occhi della comunità internazionale, ma agli occhi della propria gente».

E adesso?
«Credo che il nodo sia arrivato al pettine, e che una decisione vada presa. A maggior ragione questo nuovo governo, che ha messo al centro i diritti di cittadinanza, come da tempo sostiene in Parlamento. Ecco, queste forze politiche non potranno eludere a lungo una scelta».

Quanto è assordante il silenzio dell’Università di Cambridge?
«Cambridge una scelta l’ha fatta, e in un certo senso ha scelto quella ragione di stato di cui parlavamo prima. È una delle più prestigiose università del mondo e ha scelto il cinismo per mettere in sicurezza la propria immagine. Giulio è stato mandato allo sbaraglio senza nessuna protezione e tutela, sottostimando il rischio della sua ricerca, ha preferito rifiutare ogni cooperazione. Questo non fa onore a Cambridge e al mondo della ricerca».

Come l’ha cambiata questa storia?
«Mi è stato chiesto di seguirla perché dall’inizio presentava molti e diversi piani di lettura. Era necessario uno sforzo giornalistico resiliente nel tempo, lungo e che si muovesse su più piani: non solo quello del mero dato di cronaca, ma anche il piano della politica, dei rapporti tra i due Paesi e il contesto del regime egiziano. Quando il giornalismo riesce a svolgere in modo trasparente questo ruolo, fa al meglio il suo mestiere. E mostra la ragione per la quale un Paese non può dirsi democratico senza un giornalismo libero».

In questi anni ha conosciuto la famiglia di Giulio. Che idea si è fatto?
«Sono sempre molto attento a entrare nelle dinamiche del dolore e dell’elaborazione del lutto dei genitori di Giulio. Siamo davanti a una famiglia di grande dignità che ha sempre trasformato questo dolore in richiesta di giustizia, e che continua a lottare finché avrà fiato. Non è una famiglia che si ritirerà in buon ordine, ma cercherà la verità con coraggio e resilienza».

Ecco, lei si è mai messo nei loro panni?
«Mi sarebbe piaciuto reagire come hanno fatto loro. Perché bisogna trovarsi in una determinata condizione per poi conoscere una parte di noi che magari non conosciamo. Si dice che il dolore peggiore sia quello di sopravvivere al proprio figlio. Un dolore insopportabile e indicibile già per chi perde un figlio per una malattia o un accidente. Si può immaginare che questo dolore sia ben più grande quando un figlio ti viene portato via come Giulio. Si capisce come dentro quella richiesta di giustizia ci sia tutta la volontà di convivere con questo dolore, un dolore che non passa…».

Nel suo libro “Il corpo del reato” lei parla anche di un altro caso, quello di Stefano Cucchi (nella foto qui sotto). Come possiamo legare queste due vicende?
«Sono due vicende diverse tra loro, perché Giulio e Stefano erano due ragazzi molto diversi, per storia e per formazione. Giulio era un brillantissimo ricercatore della Cambridge, Stefano era un tossico di una delle periferie più complicate di Roma, quella di Tor Pignattara. E sicuramente l’Egitto di Al-Sisi non è l’Italia democratica. Parliamo di due vicende diverse. Ma queste due storie hanno un punto in comune: gli apparati dello Stato hanno consumato su un innocente un abominio, il peggiore: hanno privato della vita due esseri umani. Due ragazzi soli, che di fronte ai propri carcerieri vengono abusati al di fuori di qualunque legittimità e nella forma più spaventosa che possa esistere: quella di un uomo in divisa, un tutore dell’ordine, nei confronti di un cittadino inerme affidato alla sua custodia».

Crede ancora nella giustizia?
«Certo. Credo nella giustizia, altrimenti smetterei di fare quello che faccio».

Se avesse Giulio qui davanti cosa gli direbbe?
«Che non lo abbiamo lasciato solo e che non lo lasceremo mai solo. Perché come recita lo slogan, che a qualcuno ha dato fastidio: “Giulio siamo noi”. Sì, è vero, Giulio siamo noi».

L’autore

Carlo Bonini nasce a Roma il 4 marzo 1967. Bonini ha lavorato per “Il manifesto” e il “Corriere della Sera”, occupandosi di cronaca giudiziaria, passando poi al quotidiano la Repubblica come inviato speciale. Negli anni di carriera da giornalista, sono tante anche le storie e le inchieste che racconta nei suoi libri.

Il primo “La toga rossa”, pubblicato nel 1998, a cui segue la biografia di Renato Vallanzasca (“Il fiore del male. Bandito a Milano”). Nel 2004 pubblica “Guantánamo. Viaggio nella prigione del terrore”; due anni dopo scrive a quattro mani, con Giuseppe D’Avanzo, “Il mercato della paura”. Poi nel 2009 pubblica “Acab. All cops are bastard”, da cui esce anche il film di Stefano Sollima. Quattro anni più tardi esce “Suburra”: il romanzo sulla criminalità romana scritto con Giancarlo De Cataldo. Proprio dal romanzo, nel 2015, viene realizzata un film, sempre diretto da Stefano Sollima, e nel 2017 una serie tv per Netflix. Lo stesso anno viene pubblicato il sequel, sempre a quattro mani, “La notte di Roma”. L’ultimo lavoro di Bonini è “Il corpo del reato” sul processo di Stefano Cucchi (il giovane morto all’ospedale “Sandro Pertini” di Roma il 22 ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare) e sulla morte di Giulio Regeni.

 

 

Alessandro Venticinque

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