Nel settimo anniversario della consacrazione episcopale
«Ho scoperto che l’unica cosa che ha senso è dare la vita per i fratelli»
Eccellenza, cosa sono stati per lei questi sette anni da vescovo di Alessandria?
«Quando la gente mi diceva: “Il settimo anno è quello della crisi” io rispondevo: “Ho fatto sei anni di crisi, e in questo vedo i primi germogli”. Sette anni si possono vedere in tanti modi. La mia speranza è di vederli secondo il libro della Genesi: spero di aver passato le sette vacche magre, e che ora ci siano sette vacche grasse… che si vada su una vita pastorale più serena e tranquilla. Lo dico perché in questo periodo, dopo aver fatto gli spostamenti, facciamo un po’ fatica a coprire tutta la diocesi».
Sette è un numero ricorrente nell’Apocalisse…
«Se dovessi rapportarlo all’Apocalisse, mi chiedo se è il settenario delle lettere, dei sigilli, delle trombe o dei flagelli! Dei flagelli lo escluderei, perché sarebbe troppo “conclusivo” (sorride). Potrebbe essere quello delle trombe, la chiamata al giorno di Dio… Ma io per indole penso sia più quello delle lettere, o quello dei sigilli. Delle lettere perché in questi anni abbiamo fatto una radiografia del nostro stato pastorale, e forse stiamo imparando qualcosa. Dei sigilli, invece, perché mi pare che si stia svelando agli occhi della gente ciò che costituisce la pastorale ordinaria, quotidiana. E io comunque vedo dei grandi passi avanti, nel clero e in tutta l’attività pastorale. Sono stati sette anni faticosissimi che mi hanno insegnato molto e in cui ho conosciuto persone straordinarie con le quali ho fatto pezzi di cammino rilevanti. Funestati da tante difficoltà, certo, perché così è la vita. Da questo punto di vista penso alle sette vacche magre, perché anche in mezzo a tutte le fatiche che ho vissuto, a volte con risultati non straordinari, ho visto crescere la comunione. Questo è il dato più importante, non tanto ciò che si fa. Perché non siamo giustificati dalle opere della legge, ma siamo giustificati e resi giusti in virtù della fede del Signore. E questa virtù ci rende in comunione, e vedendola crescere vuol dire che è cresciuta la fede».
La sua fede è cresciuta?
«In questi sette anni ho vissuto dei rivolgimenti nella mia vita spirituale come mai mi era capitato in tutta la mia esistenza. Perché ho affrontato le fatiche come mai prima. E in queste fatiche ho scoperto che l’unica cosa che ha senso è dare la vita per i fratelli. Questo mi sembra un punto per me importante: credo di non aver mai vissuto così profondamente ed esplicitamente la donazione come in questi anni. L’ho vissuta anche con serenità, a parte i momenti di estrema fatica, e con la coscienza di essere qui ad Alessandria per morire».
Ad Alessandria per “morire”: a che punto siamo?
«Sto imparando, anche se non sono ancora arrivato a gioire, rallegrarmi ed esultare quando mi perseguitano e mi insultano per […]
[…] causa di Gesù. Cosa che è successa qualche volta (sorride)… Devo dire che mi ci sto avviando con una certa serenità, conscio dei tanti limiti che ho. Il Signore non ci chiede di liberarci dei limiti per seguirlo. “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” così dice il Signore a San Paolo, quando si lamenta di avere una spina nella carne e prega di essere liberato. Paolo, che era abituato a subire persecuzioni, pur avendo un forte potere spirituale, si sente dire queste parole. Io sperimento questo: la mia debolezza mi fa consegnare alla comunità, la quale ha i doni necessari a sopperire alle mie debolezze. Spesso c’è questa visione “malata” della vita cristiana, come se fosse il perfezionamento eroico di un super campione del mondo della santità, per cui prima diventi santo e poi ti ascoltiamo. Tra le righe me lo sono sentito dire spesso… Ma la vita cristiana non funziona così. La donazione è semplicemente condividere ciò che hai: hai cinque pani e li condividi, poi è il Signore che li moltiplica. Noi possiamo solo dire di essere stati servi inutili».
C’è un errore che si rimprovera in questi sette anni?
«Ce ne sono stati tanti, soprattutto all’inizio. Di fronte a contrarietà o azioni negative, l’errore è stato quello di prendermela, perché ne facevo una questione personale, rimanevo ferito… Quando vieni ferito, quando c’è qualcosa che ti contraria in modo pesante, ecco, quello è il momento in cui il Signore passa di più. Però quanto è difficile fare questo passaggio quando si è punti sul vivo! Questo è quello che più mi addolora, perché è successo tante volte, e me ne vergogno. Solo offrendole, possiamo trasformare le cose dolorose in un evento di grazia».
Nell’imminenza di questo anniversario, lei si è trovato a celebrare il funerale dei tre Vigili del fuoco morti a Quargnento.
«Il fatto che io abbia avuto il ruolo di aiutare a rileggere in chiave cristiana questa tragedia, l’ho visto un po’ come una matrice e un’indicazione del mio Ministero, nell’imminenza di questo settimo anniversario. Il vescovo serve proprio a dare una lettura di senso alla realtà, non solo ai preti ma a tutta la comunità. Devo dire che alla luce di questo l’Apocalisse al capitolo 19, versetto 10, dice: “La testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia”. Proprio in questa occasione sono riuscito a trovare un senso a questa frase enigmatica: l’aiutare a rileggere la realtà è proprio il ministero profetico. Il profeta è quello che ti aiuta a rileggere la parola di Dio, interpretandola nella tua realtà. La testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia, cioè la vera capacità di rileggere la realtà alla luce della Parola di Dio, è l’atto dell’immolazione: morire amando, morire servendo. La vicenda dei Vigili del fuoco ha messo davvero in luce che lo spirito di profezia è la martyrìa di Gesù. E questo spirito di profezia non consiste nel mettere tutto in ordine, come piace a noi, ma nell’amare nelle tue morti. In questo senso la tragica fine di quei tre ragazzi è un segno importante per la società intera».
Adesso contro il colpevole, reo confesso, c’è molta rabbia: è giusto così?
«Io ho tutt’altra visione. Il mio pensiero, considerando che in me non abita solo il bene, è che magari al suo posto avrei potuto esserci io. Ho pensato a come si può scendere la china, perché non è che uno decide di fare l’assassino da grande… spesso fa degli sbagli, e per coprirli ne fa altri ancora più grossi. Ma il perdono di Dio c’è sempre, solo che noi non riusciamo a capirlo perché ci sembra ingiusto. “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc. 15, 7). Noi invece preferiamo scagliare la prima pietra… è più comodo!».
Andrea Antonuccio