Addio al diacono Lorenzo Panizza
«Ha vissuto la sua sofferenza senza paura della morte»
«Da fuori era una roccia, ma se scavavi trovavi il cuore vero di una grande persona». Così la figlia Roberta e la nipote Ludovica ci “raccontano” il diacono Lorenzo Panizza, tornato alla Casa del Padre sabato 7 dicembre all’età di 86 anni. Un uomo che ha sempre cercato di svolgere il proprio servizio nel migliore dei modi, in diverse attività: dal servizio di portineria in Curia alla recitazione con il “Teatro insieme”, dall’associazione San Francesco al consultorio familiare dell’Ucipem. Senza però trascurare la famiglia: la moglie Sandra, i figli Marco, Maria-Chiara e Roberta, e i nipoti Ludovica, Emanuele e Matteo.
Roberta e Ludovica, chi era Lorenzo Panizza?
Roberta: «Un padre rigoroso, onesto, sempre presente senza mettersi in mostra, e molto attaccato alla famiglia. Nonostante non fosse più autonomo negli ultimi tempi, non ha mai perso la sua dignità, non si è mai lamentato. Mi ha ricordato San Francesco, perché ha vissuto la sofferenza in una maniera tutta sua, in modo solitario. Ma sempre con i suoi cari accanto».
Ludovica: «Uno degli ultimi giorni gli avevo chiesto se temeva la morte. E lui mi aveva risposto: “No, sono tranquillo”».
Vi eravate accorte di avere un diacono in casa?
R: «Ci aveva comunicato che sarebbe diventato diacono poco prima di essere ordinato (l’8 novembre 1998, ndr), noi non ne sapevamo nulla. Ha sempre vissuto questo ruolo come un impegno, e lo ha voluto mantenere fino a quando è riuscito a venire in Curia. Io gli suggerivo di prendersela più comoda, ma lui mi diceva: “O lo faccio bene, o non lo faccio”».
L: «Non ha mai giudicato la nostra fede e non ci ha mai costretto a fare qualcosa. Ci lasciava liberi di fare il nostro percorso spirituale, esprimendo comunque la sua opinione. Senza imporcela».
Il rapporto di Lorenzo con la moglie?
R: «Hanno vissuto insieme quasi 62 anni! Si erano conosciuti giovanissimi, e da allora non si erano più separati. Due persone molto diverse, che si completavano a vicenda. E unite fino all’ultimo».
Vi viene in mente un aneddoto?
R: «Ricordo che avevo 10 anni ed ero con mio papà in un bar a Pisa. Il barista gli diede come resto dei soldi in più e lui glielo fece subito notare, restituendoglieli la differenza. Lo racconto per sottolineare la sua onestà, che veniva dal profondo del cuore».
Che cosa vi ha lasciato?
R: «L’onestà, come dicevo. Ma anche la fedeltà, il senso del dovere, l’impegno. L’affetto, a suo modo, e quel senso di “perfezionismo positivo” che lo spingeva a migliorarsi sempre di più».
L: «Diciamo che siamo un po’ tutti “fatti” di lui. Ci ha passato molto di sé senza che ce ne accorgessimo».
Alessandro Venticinque