Studiare e informarsi per cercare di capire
La Legge 211, 20 luglio 2000, che istituisce il Giorno della Memoria, compie quest’anno vent’anni, ed è giusto porsi qualche domanda sui risultati che sono stati ottenuti. In questo periodo l’opinione pubblica italiana ed europea è stata oggetto di differenti politiche della memoria, che vanno dall’approfondimento dei temi della Shoah nelle scuole, a cerimonie di ogni genere, persino all’istituzione di leggi, che, sulla falsariga della francese Legge Gayssot del 1990, condannano chi neghi o minimizzi la portata della Shoah. E tuttavia è sotto i nostri occhi quello che a tutti gli effetti appare come un fallimento di queste politiche. Episodi di razzismo e di antisemitismo si sono moltiplicati a dismisura in Italia e in Europa, proprio in quei paesi che sono stati all’avanguardia nell’elaborare e nell’attuare attività commemorative. L’odio razziale e xenofobo dilaga in rete.
Non possiamo non ricordare le minacce alla senatrice Liliana Segre, il fatto che la mozione per istituire una commissione d’inchiesta sull’odio razziale e l’antisemitismo in Parlamento non ottiene l’unanimità e i senatori del centro destra non si uniscono all’applauso dell’aula alla sua approvazione e restano seduti, una situazione inconcepibile ai tempi della tanto vituperata prima Repubblica. Recentissimi sondaggi, pubblicati su testate giornalistiche nazionali, confermano che una parte minoritaria, ma da non sottovalutare, della popolazione italiana è propensa a ridimensionare, quando non a negare del tutto, l’esistenza della Shoah, e ad accettare acriticamente stereotipi che credevamo definitivamente scomparsi – ad esempio, che gli ebrei sono ricchi e potenti, e vogliono dominare il mondo. La domanda che politici, educatori, studiosi dovrebbero porsi è davvero in che cosa si è sbagliato, se i risultati sul lungo periodo sono stati l’opposto di quanto sperato. Un lungo articolo della studiosa Valentina Pisanty, Che cosa è andato storto? Le politiche della memoria nell’epoca del post-testimone, pubblicato sulla rivista online Novecento.org come anticipazione di un saggio più ampio di prossima pubblicazione, mette in evidenza un problema. Secondo Pisanty, l’equazione Per non dimenticare mai più su cui si sono basate molte politiche della memoria è semplicistica e quindi insufficiente. Fa leva infatti su una adesione acritica ed emotiva ad affermazioni che ripetute innumerevoli volte in occasioni pubbliche sono diventate quasi dei luoghi comuni, delle ovvietà, ripetute senza una vera comprensione del fenomeno. In vent’anni, molte cose sono cambiate. Sono cambiati i mezzi di informazione, con una prevalenza di sistemi, come i social network, in cui è molto più difficile, e richiede conoscenze specifiche, valutare la veridicità di quello che si legge, e che amplificano a dismisura qualsiasi tipo di messaggio.
E’ cambiato soprattutto il modo con cui gli stati europei, dopo la caduta del comunismo e l’espansione del terrorismo, hanno iniziato a costruire in maniera pubblica la propria memoria collettiva, in maniera non univoca, e con frequenti derive nazionaliste. All’Italia, paradossalmente, la narrazione pubblica è servita per minimizzare il ruolo avuto nella deportazione e nello sterminio, e per rafforzare il mito degli italiani brava gente che storicamente, al contrario, non ha purtroppo ragione di essere. Lo stesso presidente Mattarella il 25 gennaio 2018 metteva in guardia da questa minimizzazione del ruolo del fascismo, nel timore che potesse generare nuovi mostri, cosa che si è, come abbiamo visto, puntualmente verificata. Cosa può fare il cittadino, se la politica ha in qualche modo fallito? Non è facile a dirsi. Si può partire proprio dalla consapevolezza di quanto sia difficile costruire una memoria collettiva e universale per studiare, leggere, informarsi; per aprirsi agli altri nei propri rapporti personali; per cercare di capire.
Antonella Ferraris – Responsabile sezione didattica dell’Isral