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Sacerdote da… 75 anni!

La nostra intervista a monsignor Guido Ottria, parroco del “San Paolo”

Don Guido Ottria, 98 anni e mezzo, ci accoglie nella sua abitazione (sopra l’oratorio San Paolo, in via De Gasperi ad Alessandria) con il Santo Rosario tra le mani e un sorriso lieto sul volto. Dopo aver superato alcuni problemi di salute, don Guido si è rimesso in forze ed è tornato a svolgere il suo servizio pastorale. Senza perdere il buon umore, accompagnato dalla vicinanza e dall’affetto della sua comunità: «I giorni feriali e il sabato dico la Messa alle 18.30, la domenica alle 10. E sono contento». Ci accomodiamo in salotto e gli chiediamo di raccontarci i suoi primi 75 anni di Ordinazione sacerdotale, festeggiati il 7 settembre.

Don Guido, partiamo dall’inizio…

«Le mie origini sono acquesi, san Guido infatti è patrono di Acqui. Sono nato il 27 gennaio 1924 a Trisobbio, in un momento molto difficile per la mia famiglia: mio papà era morto a 33 anni, per un’infezione, tre mesi prima che io venissi al mondo. C’era già una sorellina, nata nel ’22, quindi mia mamma si è trovata vedova, giovanissima, con due creature da crescere. La mia infanzia l’ho trascorsa nella cascina dei miei nonni a Schierano di Rocca Grimalda. Fino a 5 anni ho vissuto con i nonni, perché mia mamma lavorava alle Poste e si spostava in vari paesi: Trisobbio, Cassinasco, Castelceriolo, San Giuliano e Solero. Poi, nel ’29, si è trasferita a Gamalero e io l’ho seguita in modo da poter iniziare le elementari».

Il piccolo Guido che bambino era?

«Oh, ero piuttosto magrolino, smilzo, e sono rimasto così… mi chiamavano “tisicuzzo” (sorride). La mia è stata una “trafila” normale, anche se già all’epoca cresceva in me la vocazione. Mi hanno mandato prima a fare un anno ad Alessandria, al Ginnasio dai salesiani nel collegio di San Giuseppe, vicino a Santa Maria di Castello, e dopo sono entrato in seminario, con rettore monsignor Civera. Sono stato ordinato sacerdote a Gamalero, il 7 settembre 1947. Come vescovi, durante quegli anni, ho conosciuto prima monsignor Milone e poi monsignor Gagnor. Proprio lui mi mandò a Roma a studiare Teologia. Se ci penso adesso, la teologia che abbiamo fatto… non si parlava mai di Sacra Scrittura, ma sempre e solo di filosofia. Non ho un bel ricordo di quel periodo (sorride). Poi, nel ’51, Gagnor mi richiamò ad Alessandria come suo segretario. Un incarico che ho continuato a svolgere anche con monsignor Almici, che tra l’altro progettò questa chiesa di San Paolo».

Come nacque l’idea della nuova chiesa?

«Celebravamo nella chiesetta in via Maggiolini. Era piccola, non c’era posto per tutti, molti fedeli la domenica stavano fuori. Così abbiamo pensato di costruire una chiesa più grande, anche se c’era una difficoltà di carattere “ideologico”: non volevamo realizzare una struttura chiusa, ma un luogo in cui la gente si ritrovasse per pregare… era il ’68 (sorride). Eravamo incerti, ma alla fine ci pensò il Padreterno: la famiglia Garavelli ci lasciò i suoi beni al fine di edificare una “chiesa di San Paolo”… segnale inequivocabile! Monsignor Almici fece il decreto indicando me come parroco, aiutato da don Maurilio Guasco, don Giorgio Guala, don Mario Martinengo e don Giampiero Armano. Da lì siamo partiti».

Erano anni di profondo cambiamento.

«L’idea era quella di attuare, in qualche modo, il Concilio Vaticano II. Specialmente guardando alla gratuità del servizio: alla gente non dovevamo mai chiedere soldi per i nostri servizi. Avevamo tutti un lavoro: io insegnavo religione al Conservatorio, don Maurilio in un’università, don Mario e don Giorgio erano all’Enaip. Quindi siamo andati avanti con le nostre risorse, senza chiedere soldi per le Messe… E poi volevamo una Chiesa non chiusa in sé, ma aperta. Avevamo redatto un programma, in cui scrivevamo: “La Chiesa ha un aspetto centrifugo”. Ricordo una delle osservazioni che ci fece Almici: “Ma la Chiesa deve anche pensare a se stessa!”. Sono molto affezionato a monsignor Almici, era un bresciano pieno di iniziativa. A lui dobbiamo Betania, il Carmelo, le parrocchie nuove. Anche se era ostacolato da noi preti, temevamo che indebitasse la Chiesa. Ma lui era molto coraggioso, si fidava sempre della Provvidenza».

Lei quando ha capito di voler diventare sacerdote?

«Sono cresciuto in un’epoca in cui il parroco era tutto. Per qualunque problema ci si affidava al sacerdote, che era visto come una figura presente e significativa nella vita quotidiana. Una presenza utile alle famiglie, che dava fiducia e serenità… Così mi sentivo chiamato a fare questo cammino, per essere di utilità e conforto agli altri».

Ripensamenti?

«No, mai. Anche se quelli erano anni difficili, in cui alcuni sacerdoti lasciarono la tonaca. Uno di loro, prima di andarsene, mi disse: “Pensaci bene anche tu!”. Riteneva fosse una strada chiusa, quella della Chiesa. Ma io non ho mai avuto bisogno di ripensarci».

Sono passati 75 anni…

«Anni intensissimi, ho fatto tante cose. Anche troppe (ride)! La scuola, il tribunale, l’ufficio pastorale, il mio servizio in parrocchia, la preghiera. E poi, periodi molto fecondi come penitenziere in Duomo, gli anni più belli. C’era sempre qualcuno che veniva e aveva bisogno di parlare. Ricordo una volta, era inverno, faceva freddo, era buio, pioveva. È arrivata una signora con il suo compagno, veniva da lontano e casualmente passava da Alessandria. Non andava da tanto tempo in chiesa, è venuta e ha aperto il suo cuore. Ho capito l’importanza, anche nel mio piccolo, di essere presenti».

Chi è Gesù Cristo per lei?

«Colui che dà un senso alla mia vita. Come dicevo domenica a Messa, citando don Tonino Bello: “Nella convinzione che solo in Lui la mia vita trova sapienza, gusto, significato e pienezza”».

Non è forse questo “solo in Lui” che si è perso nella Chiesa?

«Sì, facciamo tante attività, tante cose nostre, ma abbiamo perso la centralità di Cristo. E poi, diciamoci la verità, la nostra predicazione è molto carente. Diciamo ancora tante Messe, ma le omelie di oggi non danno alcun nutrimento. Non occorre sprecare parole. Anche poche frasi, ma che abbiano una logica».

Sappiamo che lei legge Voce…

«Grazie per la comunicazione che fate, mi informate su ciò che accade in Diocesi. Vi ringrazio per questo lavoro, prezioso e impegnativo. Non è né semplice né scontato».

Un augurio a chi ci sta leggendo?

«L’augurio è di poter vivere da cristiani, giorno per giorno, nelle mani del Signore. L’unica risorsa, il senso del nostro vivere e morire: Gesù».

Andrea Antonuccio
Alessandro Venticinque

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