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Vivere la morte/1: parla don Mario Cesario

Don Mario Cesario, cappellano dell’hospice “il Gelso”

Don Mario, sei cappellano dell’Hospice. Vorrei farti qualche domanda sul tuo rapporto con la morte: che esperienza fai quando ce l’hai davanti agli occhi?
«Mi rifaccio sempre alla seconda lettura della XX domenica del Tempo ordinario, in cui San Paolo scrive all’amico Timoteo. Quello che mi ha colpito, e continua a colpirmi, è questa frase: “Finalmente passo quella famosa porta e vado nel Regno dei Cieli”. Anche noi ce lo diciamo. Però, umanamente, per quanto pensiamo di essere preparati, non lo siamo affatto».

Perché?
«Perché abbiamo una componente umana che ci spinge ad andare avanti il più possibile. Anche se sappiamo perfettamente che, prima o poi, ci fermeremo. Vogliamo un pochino tenere nascosto questo aspetto, cancellarlo dalla nostra mente, pur sapendo che ci capiterà».

Ecco, tu la morte l’hai vista in faccia. Che “sguardo” aveva?
«Nella mia vita l’ho vista già due volte: la più recente è stata per il Covid, l’altra per un infarto 11 anni fa. In entrambi i casi è subentrata, stranamente, una forza tale che mi ha dato la possibilità di andare avanti e superare questo momento. Per un motivo molto semplice, perché mi sono detto: “Devi continuare a fare il tuo ministero di sacerdote”. Di fronte alla morte, lo dico sinceramente, non ho mai avuto paura. Dovrebbe essere normale. Ma non lo è per la maggioranza delle persone».

Da dove viene questa tranquillità?
«Sicuramente la fede mi ha aiutato, però sentivo questa forza dentro che, ancora oggi, non so definire. Come se mi sentissi dire: “Vai avanti e la supererai”. Specialmente per il Covid: tutti avevano diagnosticato il mio passaggio da quella “famosa porta”. Invece per me non era così, infatti sono ancora qui (sorride). Ma solo perché il Signore ha voluto così, non per merito mio!».

Come possiamo prepararci alla morte?
«Mi riferisco ancora alla Liturgia della Parola, e in particolare al pubblicano e al fariseo. Prepararsi vuol dire riconoscere le proprie colpe e pensare che il Signore è un Dio buono, che mi vuole bene. Credo che riconoscersi peccatori e pentirsi possa già essere un percorso che prepara».

La paura della morte non deriva dal fatto che all’Aldilà con il Signore ci crediamo poco?
«Ci sono un sacco di dubbi sulla morte, questo è chiaro. E li abbiamo perché la nostra mente è limitata. Allora diciamo: “Io credo che i miei siano di là, e che mi aspettano”. Però, in fondo, il dubbio c’è l’hanno in tanti… Quello che può confortarci è la via dei Santi: molti hanno fatto questo percorso e sono arrivati sereni alla fine della loro avventura umana. Ecco, questo ci deve far pensare che c’è un Aldilà. Leggendo a fondo la Parola di Dio, è difficile pensare che non ci sia niente dopo la nostra morte».

Hai accompagnato tante persone, anche quando eri ricoverato in ospedale, e lo fai ancora adesso al “Gelso”. Parli con loro di questi temi?
«Generalmente, quando ci si accosta alle persone in fin di vita è difficile parlare. Però capita che qualcuno chieda con grande convinzione di potersi avvicinare ai sacramenti degli Oli santi e della Comunione. C’è un altro aspetto che vorrei sottolineare…».

Prego.
«Vado all’Hospice da ormai 15 anni, e ciò che sta accadendo negli ultimi tempi non mi era mai capitato. Diverse persone ricoverate vedono la figura del sacerdote come qualcosa da evitare, la rifiutano. Addirittura faticano anche a salutarmi… Certi, magari, non solo sono atei, ma odiano la Chiesa. Così capita che dicano alla caposala o al medico: “Non faccia passare il sacerdote nella mia camera”. Questo deve farci riflettere, come Chiesa».

E i parenti?
«I parenti generalmente sono disponibili, e vanno sempre confortati, umanamente e psicologicamente. Spesso mi siedo con loro e chiedo di pregare un po’ insieme. Alcuni mi chiamano per dare il sacramento dell’Unzione degli infermi o la Comunione ai propri cari. Molti vedono questi sacramenti come un “toccasana” che può far guarire il parente ammalato. Ma in pochi casi è successo. In queste situazioni bisogna far sentire la propria vicinanza e quella del Signore. Un modo per dire: “Ti voglio bene perché sei una persona, una creatura di Dio. E perché il Signore ci vuole bene”. E loro sentono questa vicinanza, pur vivendo uno dei momenti più tristi dell’esistenza».

Andrea Antonuccio

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