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Abusi sui minori, c’è troppa omertà

Intervista a don Gottfried Ugolini

«Chiedo scusa per il mio italiano, ma sono madrelingua tedesco». A dirlo, sorridendo, è don Gottfried Ugolini (in foto qui sotto), responsabile del servizio tutela dei minori della diocesi di Bolzano-Bressanone, coordinatore del servizio regionale Triveneto e membro del servizio nazionale.

Il sacerdote, il 26 e 27 aprile, ha fatto tappa anche ad Alessandria, dove ha tenuto due incontri: uno rivolto a insegnanti di religione, catechisti ed educatori; l’altro, invece, ai sacerdoti. La missione di don Gottfried, insieme a quella di tanti altri, consiste nel provare a squarciare quel velo di silenzi e finto pudore che “intossica” il grande tema degli abusi all’interno della Chiesa italiana. Partendo dalle vittime: ascoltandole, curando le loro ferite e cercando insieme di ottenere giustizia. Una missione non semplice perché, proprio come ci spiega il sacerdote e psicologo di Bolzano, ancora oggi di fronte a queste atrocità si cerca di «custodire l’immagine della Chiesa, come una sorta di cultura dell’omertà». Anche se qualcosa, a piccoli passi, si sta muovendo.

Don Gottfried, cosa è emerso dai due incontri ad Alessandria?

«Ho incontrato persone interessate e sensibili al tema, sia per quanto riguarda la solidarietà con le vittime e i sopravvissuti agli abusi all’interno della Chiesa, sia per l’impegno responsabile e concreto per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Nel mio intervento ho puntato su due obiettivi. Il primo è informare, per rendere consapevoli di questa realtà e comprendere meglio la dinamica degli abusi. Il secondo, promuovere un atteggiamento di ascolto e di accoglienza per coloro che hanno subito abusi, e favorire un atteggiamento che crei ambienti sicuri, con persone affidabili, per prevenire ogni forma di violenza».

Perché ha incontrato prima i laici e poi i sacerdoti?

«Penso sia stato più un aspetto organizzativo che di principio. Sicuramente la sera era il tempo più adatto per l’incontro con gli insegnanti di religione, e la mattinata per i sacerdoti. Certo, si possono fare accentuazioni diverse per il contesto scolastico e per quello pastorale. Ho trovato un gran numero di insegnanti e un bel numero di sacerdoti: essi potranno condividere le informazioni nelle loro varie realtà, con i loro colleghi e collaboratori».

Conosce casi di abusi nella nostra zona?

«Sembra che sia ancora molto difficile affrontare il tema degli abusi, perché è connesso con il tabù della sessualità in genere. Donne e uomini che hanno subito una forma di abuso, all’interno o all’esterno della Chiesa, devono superare la vergogna e, forse, anche il senso di colpa. Devono vincere la paura di rivivere il dolore, parlando delle vicende subite, con il rischio di non essere creduti e il timore di essere nuovamente feriti o stigmatizzati. Sappiamo che dietro ogni abuso rivelato ci sono fino a 20 casi che non vengono allo scoperto. Senza dimenticare che, purtroppo, tante altre persone non ce l’hanno fatta. E si sono suicidate…».

Che cos’è la pedofilia?

«Per prima cosa occorre specificare che non tutti coloro che commettono un abuso sono definibili pedofili. La pedofilia riguarda un disturbo, di preferenza sessuale, verso minori, maschi o femmine, prima, durante e dopo la pubertà. Si tratta di una “fissazione”, un’attrazione erotico-sessuale. Questo disturbo è profondamente radicato nella persona, perciò difficilmente curabile e necessita di un continuo “monitoraggio”. Ma ci sono alcuni che, invece, riescono a controllare il loro impulso. C’è un dato interessante che vorrei riportare: l’80% delle persone che commettono abusi hanno caratteristiche di immaturità psico-affettive e relazionali, insieme a tratti narcisistici o psicopatici».

Perché la Chiesa italiana, solo ora, sta provando a fare chiarezza sui casi di pedofilia? Ci sono altre Chiese, come quella francese, tedesca, statunitense e spagnola, che si sono mosse già da tempo.

«Presumo che in Italia ci siano aspetti socio-culturali e politici che continuano a proteggere e “custodire” l’immagine della Chiesa: come una sorta di cultura dell’omertà. La Chiesa ha vissuto e vive, in altre parti del mondo, una storia di confronto acceso sia all’interno delle comunità ecclesiali e cristiane, sia all’esterno con movimenti politici e media assai critici nei confronti della religione e della Chiesa cattolica. È vero, la Chiesa italiana in questi anni ha fatto fatica a confrontarsi con la piaga degli abusi, e solo oggi ha iniziato ad assumere una posizione diversa dal passato. Ma, secondo me, manca ancora una sufficiente consapevolezza della gravità dell’abuso e delle sue conseguenze esistenziali per le vittime. Non solo nella Chiesa, ma anche nella società, nella politica e nei mass media».

Ha parlato di cultura dell’omertà. In Italia ci sono stati casi di abusi che sono stati “coperti” dal clero, anche con proposte di risarcimento. Il clima sta cambiando, o siamo ancora lì?

«Certo, questa cultura del nascondere, coprire e far tacere è ancora in atto, nonostante le nuove norme previste dalla Lettera apostolica “Motu proprio” di papa Francesco “Vos estis lux mundi” (promulgata il 9 maggio 2019, stabilisce nuove norme procedurali per combattere gli abusi sessuali, ndr) e altri documenti della Cei. Il clima sta cambiando, ma a piccoli passi. Per questo le vittime sopravvissute agli abusi sono deluse e arrabbiate con la Chiesa, perché non vedono segni concreti. Le vittime si sentono ancora percepite come coloro che disturbano e denigrano la Chiesa. Ci sono tante belle parole, però mancano interventi decisi e prese di posizione chiare».

Nonostante le precise parole del Papa, ci sono vescovi che consigliano di tenere un “basso profilo” su questo tema.

«Che ci siano, ancora oggi, vescovi che non hanno capito la portata degli abusi perpetuati da chierici, religiosi e anche da laici all’interno della Chiesa, è davvero grave. Sembra che non abbiano colto ancora la perversione di questi atti. I vescovi dovrebbero essere i primi a prendere una posizione netta e chiara per dare priorità alle vittime, accogliendole come sorelle e fratelli feriti gravemente nella loro vita, libertà, integrità, esistenza. Ma anche nella loro fede. La tutela dei minori e delle persone vulnerabili, come l’impegno per la prevenzione all’abuso in tutte le sue forme, devono essere priorità assoluta in tutte le aree pastorali, educative e ricreative delle diocesi. Questo vale altrettanto per gli istituti religiosi maschili e femminili, per le associazioni laicali, per i movimenti e gruppi ecclesiali e spirituali».

A novembre 2022 è stato pubblicato un primo report della Cei relativo agli abusi su minori. I dati: circa 89 segnalazioni nel biennio 2020-2021, con 68 presunti abusatori. Le sembrano numeri attendibili?

«I dati riportati nel cosiddetto “Report 2022” sono il risultato di un’indagine condotta presso i servizi diocesani per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, e i centri di ascolto. L’intenzione era quella di rilevare se i servizi diocesani o interdiocesani e i centri di ascolto fossero stati istituiti, attivi e se ci fossero segnalazioni di vittime. Occorre dire, quindi, che non si tratta di un report realizzato come in Germania, Franca, Spagna o Portogallo. I nostri dati offrono soltanto una fotografia della situazione: non parliamo dunque di una ricerca approfondita, scientifica e indipendente che va alle radici per avviare un vero cambiamento di responsabilità e atteggiamento, nei confronti delle persone vittime e sopravvissute o per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Rimane, quindi, una raccolta di dati superficiale e parziale».

Proprio a Bolzano è nato il primo centro di ascolto diocesano, raccontato anche nel podcast “La Bomba” realizzato da “Il Post”.

«Dopo lo tsunami di rivelazioni di abusi perpetuati all’interno della Chiesa, tedesca e non solo, nel 2010 abbiamo istituito nella nostra diocesi uno sportello, un centro di ascolto con un referente indipendente dalla gerarchia ecclesiale. La diocesi nella sua comunicazione ha fatto appello a tutte le persone che avessero subito abusi all’interno della Chiesa, chiedendo di rivolgersi al centro di ascolto. Sono convinto che l’allora vescovo Golser, assumendo un atteggiamento proattivo e concreto, ha manifestato l’intenzione da parte della nostra diocesi di confrontarsi con questa piaga e assumersi le proprie responsabilità per quanto è successo. Le iniziative di convegni, incontri informativi e formativi sul tema degli abusi, e l’istituzione di un gruppo di lavoro per la prevenzione, hanno creato un’atmosfera di fiducia che ha incoraggiato, e ancora incoraggia, donne e uomini, vittime e sopravvissuti. Queste persone raccontano le loro esperienze di abuso, chiedono ascolto, sostegno terapeutico. E, soprattutto, giustizia».

La storia di abuso più atroce che ha ascoltato?

«Guardi, ogni abuso può provocare un trauma esistenziale per una persona. Anche quello più lieve può distruggere la vita. Ci sono abusi che si sono ripetuti per molti anni. È terribile quando vieni a scoprire che una persona è stata prima abusata in famiglia, poi ha continuato a subire in collegio o nella parrocchia, e poi in terapia. Gli abusi subiti, in tenera età, da persone nell’ambiente familiare o extrafamiliare, e soprattutto perpetuate da persone con incarichi ecclesiali, comportano ferite profonde ed esistenziali. E, purtroppo, spesso le vittime non sono state ascoltate, prese sul serio, ritenute credibili. Anzi, sono state accusate di aver provocato loro stessi l’abuso o addirittura di raccontare bugie».

Lei come fa a “reggere” di fronte a queste storie?

«Ringrazio la mia famiglia. Sono grato per le esperienze e la formazione che ho potuto fare da giovane nella pastorale giovanile. Ma anche gli studi di psicologia all’Università Gregoriana, le esperienze nella Croce Rossa e i corsi che mi hanno introdotto al tema degli abusi e della tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Spiritualmente mi ha accompagnato, e mi accompagna, l’immagine di Dio con il suo sguardo verso gli orfani, le vedove e gli emarginati. Uno dei messaggi centrali di Gesù dice: “Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza!”. La compassione di Cristo verso le persone, e la fiducia in Dio suo Padre, anche durante la Passione, mi danno coraggio e speranza».

Cosa dice a un prete che ha commesso un abuso?

«Occorre guardare la persona nel suo insieme e accettarla nella sua dignità. Gli direi: “È vero che hai abusato, ma è altrettanto vero che la tua dignità ti permette di riconoscere il male fatto. Riordina la tua vita. Lasciati aiutare”. Mi sta a cuore rispettarlo e considerarlo come fratello in un cammino di conversione e riabilitazione: ma questo cammino deve essere reso trasparente e verificabile. Egli è responsabile per il reato commesso ed è chiamato ad assumerne le conseguenze morali e giuridiche, canoniche e civili».

E nei confronti della sua vittima?

«Ha l’obbligo di fare ammenda nei confronti della persona che ha ferito, certo. Ma non solo, anche verso l’ambiente in cui ha abusato di qualcuno».

La vita di fede di un sacerdote che si macchia di abusi può rinascere?

«Oltre a verificare i suoi bisogni e la sua disponibilità a essere reinserito nella pastorale, è importante accompagnare il prete durante il processo di riabilitazione. Per queste persone è necessario un percorso di monitoraggio e un accompagnamento psico-spirituale. E, in questo, è importante la presenza fraterna dei confratelli, la solidarietà e il sostegno reciproco. Per assisterlo, ma anche per tutelare insieme i minori e le persone vulnerabili».

Cosa si sente di dire a una vittima di abusi?

«Prima di dire qualcosa, vorrei ascoltarla e prenderla sul serio: dare credibilità a ciò che racconta. Le direi che ho un grande rispetto nei suoi confronti, della storia subita e sofferta. Apprezzo il coraggio di raccontare, e cerco di capire quali siano le sue intenzioni e richieste. È importante anche informarla sui suoi diritti, secondo le norme canoniche e civili. Spesso parlare, per le vittime, vuol dire liberarsi dai presunti sensi di colpa e dall’autoaccusa, chiarendo, una volta per tutte, di chi è davvero la responsabilità dell’abuso».

Basta questo? Sono vite segnate per sempre, è difficile andare avanti.

«Sì, certamente. Ma quando parlo con chi ha subito abusi mi sforzo sempre di guardarlo nella sua totalità e integrità per cogliere anche le risorse e le potenzialità: c’è sempre una persona dietro a ogni vittima, e occorre stimolarla, aiutarla verso una crescita post-traumatica che permetta di imparare, e migliorarsi, dopo l’esperienza subita. Perché, certo, le ferite non vanno mai in prescrizione e le cicatrici rimangono. Ma si deve ripartire, anche di fronte a un dolore così grande che segna la propria esistenza. Nel profondo».

Alessandro Venticinque

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