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La sfida della Chiesa è annunciare Cristo

Intervista al nunzio apostolico Tscherrig, che il 30 settembre diventerà Cardinale

Monsignor Tscherrig, come dobbiamo chiamarla: Eccellenza o Eminenza?

«Lasciamo perdere, non riesco ad abituarmi nemmeno io (sorride)».

Quando ha saputo della sua nomina?

«L’ho saputo in autostrada, mentre rientravo dalla montagna, in Abruzzo. Sento squillare il telefono con insistenza, e subito mi preoccupo: magari qualcuno in famiglia non si è sentito bene, o c’è qualche emergenza in nunziatura… Mi fermo all’autogrill, richiamo, e mi danno la notizia. Erano le 13, più o meno».

La sua reazione?

«La prima cosa che ho pensato è che fosse uno scherzo (sorride). Io non ho mai chiesto nulla, sono sempre andato avanti. Ho accettato il dono del sacerdozio, che è stata la prima grande carezza da parte del Signore. Ho accettato anche di essere vescovo e nunzio, un lavoro che faccio da 27 anni. E adesso ho accettato anche questa carezza da parte del Signore, con grande sorpresa ma anche con profonda gioia e gratitudine. Penso che quando diventiamo vecchi ci rendiamo sempre più conto, e questo è il mio caso, che tutto ciò che siamo e abbiamo è un dono. Perché, di fatto, possiamo fare molto poco con le nostre mani, ma gran parte di ciò che siamo, abbiamo e diventiamo è un dono. Questo mi fa riflettere, e vedo tutto ciò nello Spirito che mi ha sempre accompagnato durante questi anni, nelle varie missioni svolte nel mondo».

Lei ha lavorato a stretto contatto con tre pontefici: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora Francesco. Un pensiero su ognuno di loro?

«Quando ho incontrato per la prima volta Giovanni Paolo II, nel 1984, ero segretario nella nunziatura della Corea del Sud. Ciò che mi ha toccato profondamente, come giovane sacerdote, era lo spirito di preghiera di questo Papa. Ricordo che quando lo accompagnavo, prima di entrare faceva il segno della croce: “In nomine Domini. Amen”. E la prima cosa che faceva era andare in cappella a pregare. Cioè, tutto era un servizio al Signore e con il Signore. Papa Benedetto XVI invece ho avuto il privilegio di conoscerlo quando ero studente. Mi ha sempre impressionato la sua profondità e il suo spirito di intelligenza. Ricordo quando noi, studenti “ribelli” (sorride) di lingua tedesca a Roma, lo abbiamo invitato e “bombardato” di domande, anche difficili. Ma lui non si è mai scomposto: a ogni questione ha risposto, e le sue risposte erano talmente chiare e nette da non ripetere mai due volte lo stesso concetto. E questo, per me, era il segno di un grande intellettuale, ma anche di un uomo di profonda fede. Perciò le sue pubblicazioni mi hanno accompagnato e sono state al centro dei miei studi. Era sempre molto chiaro e preciso, non come alcuni teologi che quando scrivono non si capisce (ride). Era davvero un uomo di fede che incontra Cristo e cerca di spiegare e rendere accessibile, a tutti noi, la persona e il messaggio del Signore».

Papa Francesco?

«Ho avuto l’onore di incontrare Francesco quando ero nunzio in Argentina, dove papa Benedetto XVI mi aveva inviato. Bergoglio era arcivescovo a Buenos Aires, ed era anche primate dell’Argentina, perciò come nunzio avevo contatti diretti con lui sulle questioni della Chiesa. Ciò che mi ha sempre colpito è la sua gentilezza, ma anche la sua profondità di pensiero e la capacità di guardare avanti: sviluppare strategie, riflettere sul presente, ma sempre progettare nel futuro. E poi il suo coraggio: lui ha sofferto molto come arcivescovo, non ha avuto una vita facile, però ha sempre mantenuto questo coraggio basato sulla fede. Una fede che lo spingeva ad andare avanti, senza mollare. Anche adesso lui continua a ripetere continuamente di non guardare indietro: lasciamo perdere tutte le cose che non sono utili, tutto ciò che è del passato, e andiamo avanti. L’importante è annunciare Cristo Salvatore del mondo. Nella “Evangelii Gaudium” parla soprattutto dell’annuncio: cioè che noi, preti, vescovi e anche laici, dobbiamo rinnovarci e reinventarci per poter annunciare il Signore. Penso anche al suo coraggio di non lasciarsi impressionare da alcune incomprensioni. Per esempio, si dice che lui è il “Papa dei poveri”, ma tutti dobbiamo essere dalla parte dei poveri. Lui ci dice che dobbiamo stare lì dove c’è la gente, di cui una buona parte è povera. La Chiesa deve stare con i poveri, ma non deve abbandonare i ricchi: deve stare con tutti. La Chiesa deve stare dove c’è l’uomo di oggi, non del passato. E quest’uomo deve liberarsi da ciò che è pesante, dalle nostre strutture, dalle nostre amministrazioni, da quello che vogliamo preservare per la storia e per la cultura. Ma tutto questo non ci serve: bisogna essere leggeri, perché il presente è dappertutto. Allora dobbiamo stare dove c’è la necessità».

San Bruno è stato chiamato dal Papa per confutare alcune eresie. Oggi, dentro la Chiesa, quali sono le eresie più pericolose?

«Credo che, più che perderci con queste discussioni, dovremmo annunciare la fede e testimoniare soprattutto che Gesù Cristo è Dio. Perché oggi Gesù Cristo, per molti, non è più un Dio ma al massimo un benefattore, come tanti altri, che è venuto nel mondo e ha fatto tanto bene: ha fatto miracoli, ha curato la gente e poi ha lasciato questa grande idea di occuparsi dei poveri. Allora oggi la più grande eresia è negare che questo stesso Gesù è veramente Figlio di Dio. Ovvero negare la professione di Pietro a Cesarea di Filippi: “Tu sei Cristo, il Figlio di Dio vivo”. Questa, mi pare, è una delle grandi sfide che oggi dobbiamo affrontare nella Chiesa, soprattutto in un momento dove, anche qui in Italia, da maggioranza siamo diventati minoranza. Quindi siamo davanti a una nuova sfida, ovvero riconcentrarci, oltre alle tante cose che facciamo, sul Kerygma: annunciare che Cristo è figlio di Dio, e che cosa bisogna fare per essere salvati. Questa è la missione della Chiesa e il messaggio di papa Francesco».

Tra i suoi tanti spostamenti, lei ha vissuto anche in situazioni di guerra. Ancora oggi si combatte in tante zone del mondo… ma dove si vede Dio in una guerra?

«Ho visto Dio in tante occasioni, intanto perché sono sopravvissuto a diverse situazioni critiche, dove potevo anche morire. Guardi, in guerra ci sono tanti atti eroici. Mi è capitato di conoscere diverse persone, durante conflitti etnici in Africa, che si sono rifiutate di uccidere e sono morte perché erano cristiane. Ecco, lì c’è Dio, c’è il suo Regno che cresce. E ho insistito tanto perché questi sacrifici si registrassero e non si perdessero, per farli conoscere in futuro. Ricordo che portarono in prigione un signore che era di una etnia diversa da quella di sua moglie. Misero la signora sotto torchio perché denunciasse il marito, così da poterlo uccidere. Ma la moglie disse: “Non lo faccio, sono sua moglie. Ma, soprattutto, sono cristiana”. Poi hanno ucciso sua figlia, ma la donna ha comunque resistito. Ecco, queste sono le situazioni reali della guerra, che per noi è teoria perché sempre ha luogo in qualche altra parte del mondo. Ma quelli che la vivono, si confrontano ogni giorno con queste decisioni: “Devo uccidere prima che mi uccidano” oppure: “Preferisco essere ucciso io per preservare la vita del vicino, perché sono cristiano”. Sono convinto che in qualsiasi situazione, anche in guerra, si vede il Signore che è presente».

Cosa cambierà nella sua esistenza dal 30 settembre, giorno in cui lei sarà creato Cardinale dal Papa?

«Non cambierà nulla (sorride). Io continuo il mio lavoro, ancora per un po’ di tempo. Fino all’anno prossimo, penso fino a febbraio almeno, per compiere questi due anni supplementari che il Santo Padre mi ha chiesto di fare. E poi vedremo… Spero che si troverà presto un successore, perché anche qui c’è bisogno di rinnovamento: che venga qualcuno con un nuovo spirito, nuove idee e nuovo fervore».

Andrea Antonuccio
(Ha collaborato Alessandro Venticinque)

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