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Santi e defunti: ricordiamoli con fede

Intervista a don Gian Paolo Orsini, direttore dell’Ufficio liturgico diocesano

Don Gian Paolo, l’1 e il 2 di novembre commemoreremo Santi e defunti. Qual è il senso di questa celebrazione?

«Così il Messale Romano introduce la commemorazione dei defunti: “La pratica di dedicare un giorno alla preghiera per tutti i defunti nacque nei monasteri, dove è attestata fin dal secolo settimo. La sua diffusione venne ulteriormente favorita dall’abbazia francese di Cluny, con l’abate Odilone, e dai moltissimi monasteri da essa fondati in tutta Europa, che collocarono tale commemorazione al 2 novembre con un significativo legame alla solennità di tutti i santi”. E quando si celebrano i santi, a me piace sempre dire che non ci sono solo quelli ufficiali della Chiesa, ma anche i nostri. Allora anticipo subito l’orazione finale della Solennità dei santi, che secondo me è una delle più belle di tutto il Messale: “O Dio, unica fonte di ogni santità, mirabile in tutti i tuoi Santi, fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore, per passare da questa mensa, che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno, al festoso banchetto del cielo”».

Il giorno dei morti è un giorno triste, normalmente. Però, per chi ha fede, dovrebbe essere un giorno di festa.

«Cito il prefazio della solennità dei Santi: “Verso la patria comune, noi pellegrini sulla terra, sorretti dalla fede, affrettiamo il cammino, lieti per la sorte gloriosa di questi membri eletti della Chiesa, che nella nostra debolezza ci doni come sostegno e modello di vita”. San Paolo, e non solo lui, vedeva la morte come un passaggio per arrivare alla vita vera».

Noi, che piangiamo i nostri morti, non dovremmo essere più lieti?

«I santi li ricordiamo nel calendario con il “dies natalis”, normalmente il giorno della morte, la nascita al Cielo. Ai funerali mi piace dire che in quel momento viviamo anche la Pasqua, cioè il passaggio verso l’Eternità. Per Cristo è stata la passione, morte e resurrezione: per noi, passione e morte, in attesa della resurrezione. Teoricamente, dovrebbe essere un momento non così triste… Penso al rito dell’Unzione degli infermi in cui, nel momento del trapasso, della morte, ci sono delle preghiere splendide, con un forte senso di speranza, pur riconoscendo l’inevitabile dolore».

Come facciamo a ravvivare questo senso di speranza?

«Dovremmo pensare che siamo chiamati a qualcosa di immensamente più grande. Io, in maniera scherzosa, ai miei parrocchiani dico che rispetto all’Aldilà sono curioso, ma non ho fretta (sorride). Intanto, cerchiamo di vivere il meglio possibile, consapevoli che quella di oggi non è tutta la nostra vita. Questa è la nostra vita terrena: ma cosa c’è dopo? Qui cito Giovanni 14, Gesù che dice agli apostoli: “Vado a prepararvi un posto, perché voglio che dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado voi conoscete la via”. Poi Tommaso dice: “Ma non conosciamo, non sappiamo dove vai, come facciamo?”. E Gesù risponde: “Io sono la via, la verità e la vita”».

Qualcuno potrebbe obiettare che non tutti avranno un’eternità felice. Tutti i morti sono buoni, o qualcuno andrà all’inferno?

«Non so se cado nell’eresia, i teologi potrebbero rispondere meglio di me. A me piace dire, in maniera anche scherzosa, che l’Inferno non è solo “di là”, ma spesso anche di qua: o noi facciamo vivere a qualcuno l’inferno, o qualcuno lo fa vivere a noi… Direi che il Vangelo ci dà alcune indicazioni: “Avevo fame, mi avete dato da mangiare”… Quando ti abbiamo fatto tutto questo, Signore? “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli”. Abbiamo anche un precedente piuttosto clamoroso, il buon ladrone: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. E Gesù: “In verità ti dico: oggi sarai con me in Paradiso”. Certo, magari è meglio non aspettare l’ultimo momento… Il Signore ci spiazzerà con la sua misericordia, però non mettiamolo tanto alla prova!».

Quale atto di fede è necessario per non aver paura della morte?

«La consapevolezza che siamo chiamati a qualcosa di più bello. Questo è il prefazio primo dei Defunti: “Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo”».

I santi hanno compreso che il passaggio della morte terrena li portava al compimento di sé. Quindi per non aver paura della morte bisogna santificarsi?

«Non solo per la paura della morte! La vita del cristiano dovrebbe avere sempre questa prospettiva: la santità».

Come possiamo prepararci alla celebrazione dei santi e dei morti?

«È auspicabile che ci sia un senso di ricerca, di profondità anche spirituale. Che non prevalga l’esteriorità… I cimiteri, in questi giorni, li vediamo strapieni di fiori e poi, magari, per il resto dell’anno sono abbandonati. Ecco, dovremmo avere la consapevolezza che stiamo per vivere due giorni intensi, soprattutto con la celebrazione dell’Eucaristia, sia per la solennità dei santi sia per i defunti. Poi ci sono anche le indulgenze, che si possono ottenere per i defunti visitando il cimitero».

Tu hai paura di morire?

«Più che di morire, ho paura della sofferenza. E mi spiazza un po’ il non essere preparato… (sorride) Dobbiamo essere consapevoli che siamo chiamati all’Eternità, dove il Signore ci stupirà con la sua Misericordia. Come riconosceremo gli altri? Ci riconosceremo? Come saremo? Lasciamo fare a Dio… Lui fa sempre le cose migliori, se noi non ci mettiamo troppo lo zampino. Però penso che sarà bello rivedere, non so bene in che modo, quelli che abbiamo conosciuto».

Una parola di conforto a chi, magari in questo periodo, ha perso un amico o un proprio caro?

«Molte volte, l’ho sperimentato, valgono più l’ascolto e la vicinanza delle parole. Posso citare un confratello che aveva detto a un sacerdote, suo amico di una certa età, che era mancato il papà. Questo sacerdote gli rispose: “Che bello, è mancato il tuo papà: adesso è in Cielo, con Dio”. Ecco, nonostante le difficoltà, soprattutto per chi ha perso un caro improvvisamente, occorre credere a questa Eternità, al fatto che comunque i nostri cari sono con noi in una modalità diversa. E ricordiamoci che non siamo immortali: almeno, non qui su questa Terra».

Quanto è importante la comunità per vivere un lutto?

«Penso che sia un segno bello, di vicinanza. Nelle città capita poco, mentre nei paesi è più frequente. La comunità cristiana è importantissima, perché non ci lascia da soli con il nostro dolore. E ci aiuta a guardare oltre, in un mondo che ha perso il senso della morte e tende a dimenticarla, a far finta che non ci sia».

Qualcuno ha detto che certi funerali sono più belli di certi matrimoni. È così, per la tua esperienza?

«(Sorride) Dipende proprio dal “clima”: si dà per scontato che il matrimonio sia un momento di festa, ma a volte è una festa un po’ forzata. Il funerale è diverso: quando conosco la persona defunta, più che il Rosario preferisco fare una veglia, con segni e richiami. Magari chiedo di accendere una lampada a un familiare, a un amico del defunto o a un parrocchiano: un piccolo segno che alimenta la nostra fede e la nostra speranza».

Andrea Antonuccio

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