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Don Mario Cesario: «Ho trovato più affetto in loro che altrove»

 Don Mario Cesario ci racconta la sua vita con gli “ammalati”

Caro don Mario, quando è che hai cominciato a venire a contatto con le persone un po’ più eccentriche?

«Il primo giugno del 1972. All’epoca la struttura dove alloggiavano si chiamava “Ospedale psichiatrico”, come si legge ancora oggi sulla targa “storica”».

Il primo giugno 1972 sei entrato: che situazione ti sei trovato davanti?

«C’erano circa 1.500 persone ricoverate. All’epoca non c’erano i farmaci che potessero aiutare gli ammalati a vivere una vita quasi normale: allora purtroppo c’era solo la contenzione. Quello che a me ha sempre fatto impressione era l’elettroshock: entravi nel camerone e vedevi tutte le persone posizionate nel letto con la testa verso il corridoio, pronte per il passaggio del medico, che generalmente era l’anestesista dell’ospedale civile».

Non si capiva già allora che era una pratica “esagerata”?

«Sì, ma alle mie domande il medico rispondeva: “Questo è l’unico mezzo che abbiamo a disposizione per alleviare la sofferenza di questa gente”».

Cosa provocava l’elettroshock?

«Dava una scossa elettrica al cervello. Generalmente dopo erano molto più tranquilli, questo sì».

Quindi tu nel 1972 entri dentro al manicomio: che servizio svolgevi?

«Con l’altro cappellano avevamo concordato di garantire la nostra presenza continuativa di 24 ore su 24, su turni».

Chi erano le persone ricoverate?

«L’ammalato mentale allora era chi diceva delle frasi sconnesse, senza senso. Tanti, tantissimi stavano in silenzio. Erano persone che vivevano fuori dalla realtà, in un mondo parallelo».

E chi si prendeva cura di loro?

«Il personale era composto da persone quasi tutte eccezionali e bravissime, però senza una preparazione infermieristica come la intendiamo oggi. Poi si è cominciato a fare dei corsi, si richiedeva almeno la terza media: adesso è richiesta la laurea. Posso dire, con grande gratitudine verso le suore, che le consorelle avevano una preparazione limitata per quanto concerne l’aspetto infermieristico, però erano molto più preparate umanamente e avevano un ideale. Nel reparto femminile l’atmosfera era diversa: le persone venivano pulite, trattate da amiche. Nel reparto maschile c’erano degli uomini veramente bravi ma qualcuno lo era… un po’ meno».

Poi a un certo punto arriva questa legge.

«Arriva la legge 180, però noi, prima che arrivasse, avevamo creato la “Ludo” e la “Ergoterapia”. “Ludo”, gioco, “Ergo”, lavoro. Io ero addetto all’Ergoterapia, Don Fiorenzo era addetto alla Ludoterapia».

Cosa avete organizzato?

«Don Fiorenzo ha riunito tutti gli ammalati che sapevano suonare uno strumento musicale e ha insegnato agli altri a recitare: ha messo in piedi un teatro eccezionale. Mentre io ero riuscito a ottenere dalla direzione un falegname e un fotografo che insegnavano a lavorare il legno, a sviluppare le fotografie. Partecipavano volentieri, però non tutti avevano la capacità di farlo. Poi è arrivata la legge 180 e anche tanti farmaci nuovi che hanno aiutato le persone. L’unica cosa che ci tengo a dire è che i manicomi non dovevano essere chiusi ma trasformati, perché tutta questa povera gente è stata spostata nelle case di riposo».

Quindi si è spostato il problema.

«No: si è creato un ulteriore problema, perché nella casa di riposo questa gente non ci si trovava. La legge prevedeva che non era più possibile, giustamente, tenere i manicomi strutturati come erano: ma era necessario dare un’alternativa, ossia creare delle strutture in cui queste persone potessero poi vivere una vita normale. Queste strutture non sono state mai create». 

Quindi i manicomi invece di essere trasformati in quelle strutture sono stati abbandonati. Questa alternativa di fatto è mancata, giusto?

«È mancata totalmente. Voglio ricordare solo un episodio esemplificativo: si era liberato un alloggio al secondo piano della struttura ospedaliera di Via Venezia, e si decide di far alloggiare lì tre donne, per farle vivere da sole e in autonomia. Io avevo detto che secondo me era pericoloso e prematuro, ma non sono stato ascoltato. Purtroppo una di loro si è buttata. Non ti dico i resti che abbiamo raccolto in cortile. La settimana dopo si è buttata un’altra».

Tu che te ne intendi: che cos’è la follia?

«La follia è diffusa oggi più che mai: ci sono più folli adesso che là dentro. La follia è quando non si rispettano più le regole umane della società». 

Solo le regole o anche la mentalità?

«Anche la mentalità».

Tu oggi vai ancora dai tuoi ammalati?

«Io non vado più in psichiatria, ma al dipartimento di salute mentale dove ci sono i giovanissimi».

E chi sono questi giovani? Perché vanno lì?

«Sono dissociati, sradicati da quella che è la cultura di oggi, fanno fatica a inserirsi nella società. Nel dipartimento vengono aiutati con la ludoterapia e l’ergoterapia, vengono portati fuori a fare esperienze quotidiane, come potrebbe essere una visita al mercato di lunedì».

Ma non ti fa pensare che essendo tutti giovani c’è qualcosa che non va?

«La fede c’è, la carità c’è, è la speranza che non c’è più. Io mi ritengo colpevole: noi di una certa età non siamo stati capaci di aiutare i nostri ragazzi, non siamo riusciti a trasmettere a loro una speranza».

Ci siamo dentro tutti. Che altro ti piacerebbe dire di questo tema?

«Potrei parlare per tutto il giorno, perché è stata ed è la mia vita… vorrei dire che ho trovato più affetto in quegli ambienti lì, tra gli “ammalati” che altrove: sono capaci di una semplicità, loro sentono istintivamente se gli vuoi bene».

In che modo esprimevano la fede?

«La parte femminile era un pochino più sensibile al tema, forse perché c’erano le suore. Gli uomini alla domenica venivano in massa perché c’era la Messa, e se la mia omelia era più lunga del solito loro avevano il buon gusto e il coraggio di dire: “Don Mario ci hai stufato, taglia corto!”. Non so se fossero effettivamente liberi di scegliere di venire a Messa, però la cosa positiva era che li dovevano almeno lavare e preparare per venire in chiesa».

Potevano fare la comunione?

«Sì, certo. Ricordo un aneddoto che mi raccontava un vecchio cappellano, monsignor Cassulo: lui dava la comunione in bocca e un paziente gli ha morso la mano. Allora lui ha posato la pisside e gli ha dato un pugno in testa, così l’uomo ha aperto la bocca e lui ha estratto la mano: è un episodio che è passato alla storia». 

Come si fa a non diventare matti?

«(Sorride) E io ti chiedo: come si fa a non prendere una malattia?».

Andrea Antonuccio

Leggi il paginone: Siamo tutti un po’matti?

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