Dalla Veglia per la Vita
Mi chiamo Desirée, la mia storia inizia 15 anni fa quando rimasi incinta. Non ero più fidanzata, ero da sola, ed ero al terzo mese: feci alcuni esami e mi dissero che era tutto a posto. Non avevo voluto la gravidanza ma ero contenta.
Al quinto mese vado a fare la morfologica e durante l’esame scoprono che qualcosa non andava perché il bambino aveva la spina bifida, e mi dicono di tornare giorno dopo.
Torno, e mi dicono che devo abortire: «Ah, subito così?» chiedo. Rispondono: «Subito». Ma io penso: «Come faccio ad abortire al quinto mese di gravidanza?».
Decido di andare a fare degli altri esami in un altro ospedale a Milano e anche lì il dottore mi dice che devo abortire per forza, perché con la spina bifida non c’erano speranze e che con la colonna vertebrale completamente curva, se anche nascesse, il bambino non avrebbe avuto neanche una vita, non si sarebbe potuto sedere, sarebbe stato sempre a letto e probabilmente sarebbe morto dopo poco tempo.
Io lì sinceramente non sapevo cosa pensare né cosa fare. Però loro insistevano.
Mi dico: «Se ad Alessandria e a Milano insistono qualcosa ci sarà».
Decido di abortire, ero scoraggiata, volevo liberarmene e basta.
In quel periodo non ero ancora cristiana, sinceramente, andavo in chiesa così ma non avevo la convinzione di fede e della religione.
Quella notte però ho pregato: «Va bene, Dio, se vuoi che io tenga questa gravidanza dammi dei segnali quando vado in ospedale, se no io vado ad abortire».
Al mattino in ospedale, mi rispondono: «Va bene che sei venuta ad abortire, ma dopo il terzo mese non si può abortire così»… e mi ricoverano.
Quello era il primo segnale ma io però non l’avevo visto: quando sei in una situazione difficile non vedi neanche i segni che hai chiesto!
Mi fanno parlare con una psicologa, molto simpatica, che mi dice: «Ma sei giovane, di un bambino così che te ne fai?». Così decido di abortire.
Torno in camera e inizio ad ascoltare le mie canzoni preferite di chiesa.
Dopo mi fanno parlare con uno psichiatra, che mi dice: «La mia collega mi ha riferito quello che hai deciso. Però ti faccio solo riflettere su una cosa: io so che per il momento hai pensato al bambino perché ti avranno sicuramente detto che è disabile, che avrà tutte queste difficoltà, però non hai pensato a te stessa dopo l’aborto: anche tu conti in questa situazione, come ti sentirai?».
Lui mi ha davvero illuminato.
In tutto quel tempo io non avevo pensato a me stessa, ma solo al bambino e a tutto quello che mi avevano detto. Per me questo era il secondo segno. Quindi mi dico: «Va bene, adesso inizierò a fare le domande giuste ai medici». Dopo lo psichiatra, parlo con il ginecologo e gli chiedo come si fa ad abortire. Mi risponde: «Dopo il quinto mese, ti mettiamo un ovulo dentro e tu partorisci». Chiedo: «Ma il bambino muore quando viene fuori?».
Mi risponde di “sì” nel 99% dei casi, una percentuale comunque alta.
Allora ho risposto: «No, no, non lo faccio più perché già questa malattia colpisce una percentuale bassa di persone, una persona su mille, e io l’ho presa, quindi se c’è anche una chance che lui nasca e non muoia, diventerebbe ancora più grave perché già così ha già i suoi problemi, lo tengo, è meglio così!». Per me è il terzo segno.
E da lì in poi all’ospedale è iniziato un putiferio: erano come arrabbiati.
Quando andavo a fare i controlli, ogni volta mi dicevano che dovevo abortire, che non capivano il perché di questa scelta qua, e così via…
Io intanto inizio a fare le mie ricerche e conosco il Centro aiuto alla Vita. Non avevo neanche tanto bisogno di aiuto economico, perché lavoravo facevo l’estetista, ma avevo bisogno del loro sostegno umano, della loro vicinanza e del loro incoraggiamento.
Mi mandano all’ospedaletto e mi indirizzano alla dottoressa Casaccia, la mia Germana!
Lei mi spiega un po’ meglio cos’è la spina bifida, mi rassicura, mi spiega che a volte nel caso di bambini con la spina bifida ci sono delle operazioni che si possono fare alla nascita.
Mi indirizzano poi anche a un urologo, che mi parla nuovamente della gravità della malattia ma vedendo la mia determinazione mi dice: «Se tu ti tieni il bambino non so in quale Dio credi ma veramente deve essere molto superiore a tutti gli dèi a cui crediamo!». Anche se non ero cristiana o religiosa, ho sempre avuto fede, ho sempre pensato che c’è sempre un Essere al di sopra di tutto quello che facciamo: gli avevo chiesto un segno, e me ne aveva dati tre, quindi non potevo ignorarli!
Vado poi anche a parlare con un’assistente sociale. E lei mi dice una cosa molto bella: che loro hanno a che fare a tanti ragazzi disabili, però la differenza è nell’amore, l’amore che i genitori danno ai figli.
Io da quel momento lì ho iniziato ad amare il mio figlio prima di vederlo!
Penso ancora oggi che l’unica cosa che ci tiene (in vita) e ci dà forza è l’amore che io ho per lui e quello che anche lui ha per me!
Il 28 giugno 2010 nasce… Doron!
Appena nato è stato operato, ma nel giro di una settimana è uscito dalla terapia intensiva: «È forte» mi diceva la dottoressa Casaccia!
Quest’anno Doron compie 15 anni, e io sono contenta: è bel peperino ma grazie a Dio, è la mia gioia. Anche se a volte mi fa disperare… è la mia gioia!