L’Effigie della Madonna della Salve rimarrà nell’unità pastorale Spalti fino a sabato 28 giugno. In occasione del passaggio del Venerando Simulacro, abbiamo parlato con alcuni rappresentanti dell’unità pastorale per conoscere meglio attività, iniziative e speranze future. In questo Paginone trovate le intervista a don Giuseppe Di Luca, moderatore dell’unità pastorale Spalti, Martina Andreula e Maria Roberta Castelli. Buona lettura!
Don Giuseppe Di Luca, moderatore dell’unità pastorale
Don Giuseppe, la Peregrinatio Mariae è arrivata l’8 giugno nell’unità pastorale Spalti: tu che cosa hai chiesto alla Clementissima Patrona, per te come sacerdote?
«Penso che siamo in un tempo complesso, in cui siamo tutti affaticati. Quello per cui prego Maria è di riuscire a vivere un po’ più “lentamente”. Siamo travolti dalla frenesia della vita moderna, anche noi sacerdoti: non ci sono più i parroci di campagna che stanno sull’uscio della canonica ad aspettare i fedeli, ma uomini che corrono a destra e a manca per cercare di fare tutto. La fretta è una malattia della contemporaneità. Alla Madonna chiedo quella che potremmo definire “calma spirituale”: noi sacerdoti non produciamo dei bulloni, la nostra vocazione è seguire le anime, non possiamo travolgere in corsa le persone che ci sono affidate».
E per i fedeli della tua unità cosa chiedi?
«Chiedo una vita cristiana autentica, che si realizzi soprattutto nella comunità. Quello che io percepisco è un fare le cose quasi come se fossimo degli individui l’uno accanto all’altro. Credo manchi un po’ questo aspetto della comunità, che è un’altra malattia della contemporaneità. Questo nelle nostre parrocchie si percepisce molto: riscontro una sorta di isolamento, vedo le persone affannarsi per stare dietro alle varie attività ma senza una condivisione vera e profonda. Il problema della vita cristiana per me ora è soprattutto ecclesiale. Se tu sei da solo nel credere, rischi di mollare dopo un po’. Se invece sei inserito in un contesto di comunità, di una Chiesa che crede, è tutto un altro discorso».
Chi ti accompagna in questo servizio?
«I sacerdoti sul territorio dell’unità Spalti sono don Silvano, don Abele, don Vittorio con don Guido e don Gino. Sono parrocchie dalla forte identità, molto legata alla presenza di alcuni di questi sacerdoti che sono lì da tanti anni. Tra di noi abbiamo già una buona collaborazione sul lato “pratico”: spesso ci sostituiamo in caso di bisogno, c’è stima e rispetto reciproco, ci siamo trovati insieme a pranzo per organizzare la Peregrinatio Mariae e i corsi di preparazione al matrimonio. Il cammino che stiamo facendo è quello di crescere nell’amicizia sacerdotale. Non siamo in un’azienda: dobbiamo trovare delle motivazioni e delle dinamiche per agire insieme per un fine comune, dobbiamo crescere nella sinodalità e nella comunione fraterna».
Ci descriveresti i punti di forza della tua unità?
«Sicuramente il Corso di preparazione al matrimonio, che abbiamo organizzato insieme come sacerdoti dell’unità: è il secondo anno consecutivo che lo facciamo ed è stato proprio una bella esperienza di lavoro comune. Si è svolto per cinque venerdì da febbraio a marzo, con anche una cena conclusiva con tutte le coppie. Sia i sacerdoti che gli sposi sono stati molto contenti».
Altre esperienze che vuoi raccontarci?
«Io ho sempre un oratorio aperto che da circa cinque anni fa formazione lungo tutto il corso dell’anno: si tratta di una bella realtà giovanile e vivace. I centri estivi li hanno presi in mano Martina e Giulia, due ragazze che ci lavorano da gennaio, anche perché il sussidio per i centri estivi ce lo facciamo noi, ogni anno. La formazione, che viene fatta tra le parrocchie di San Pio V e Cuore Immacolato, è organizzata in questo modo: c’è un incontro per gli adolescenti, il sabato sera ogni 15 giorni, che faccio gestire dagli animatori più grandi. Si decide a settembre un percorso, poi si cerca di portare avanti dei contenuti facendo un incontro a cadenza bisettimanale. La domenica, sempre ogni 15 giorni, tengo io un incontro proprio per gli animatori, in cui parliamo di quello che vogliamo proporre agli adolescenti, ma dove cerco di dare loro anche contenuti più strutturati».
Ci faresti un esempio?
«Recentemente ho proposto quattro incontri sulla leadership: con l’ausilio di alcune slide, ho cercato di spiegare ai ragazzi l’identità del singolo nel gruppo e alcuni cenni teorici proprio sulla leadership. Nelle parrocchie non siamo certo in un’azienda ma c’è bisogno comunque di figure che sappiano fare da guida».
Che possibili aree di miglioramento vedi nella tua unità?
«Secondo me, a volte siamo un po’ bloccati su quelli che possiamo definire “pregiudizi pastorali”, dei posizionamenti spesso più ideologici che cristiani. A mio parere ci troviamo nella classica situazione di chi preferisce il passato che conosce rispetto al futuro che gli si prospetta davanti. Questo è tipico dell’essere umano, preferire il noto all’ignoto. L’ho anche scritto nella tesi di Sociologia che ho discusso all’Upo: “Preferiamo la certezza del passato alla meraviglia del futuro”. Nella mia tesi di laurea, che era sulla fede ai tempi della pandemia ho riscontrato che, una volta finito il periodo di restrizioni pandemiche, tutti hanno voluto tornare a fare come si faceva prima: è come se non si fosse colta nessuna possibilità di cambiamento. Ha prevalso il desiderio di stabilità rispetto alla possibilità di destabilizzazione che ti dà la novità».
Cosa si potrebbe fare per uscire da questa situazione?
«La via pratica è certamente la migliore: se ci mettiamo a fare un convegno su come avvicinare i giovani alla fede non risolviamo niente, mentre con la pratica c’è speranza di generare un cambiamento. Lavorare insieme in un progetto concreto ti obbliga a rinnovare il tuo pensiero e a mollare le redini delle tue convinzioni, a metterti fisicamente in cammino».
Hai un suggerimento da dare al nostro Vescovo sul tema delle unità pastorali?
«Parto dall’esempio pratico sulla catechesi: sarebbe una buona idea farla tutti insieme a livello di unità pastorale, ma guardando il caso specifico dell’unità Spalti, come si fa a mettere insieme 600 ragazzi per fare un unico catechismo? In questa unità abbiamo parrocchie molto grosse, alcune attività sarebbe complesso farle tutti insieme. Bisogna stare attenti a guardare la realtà e non infilarsi in una sorta di “ingegneria pastorale”. Un altro suggerimento potrebbe essere quello di esercitare il potere episcopale attraverso la “leadership gentile”, un approccio che anche io cerco di applicare negli ambiti in cui sono chiamato a organizzare e coordinare. La prima a parlare di “Kind Leadership” è stata l’americana Karyn Ross, in Italia ha raccolto il suo testimone Guido Stratta che ha anche pubblicato un libro sul tema “Leadership gentile. Dialoghi strategici” (Edizioni Acs, Milano 2024). In estrema sintesi, questo modo di esercitare la leadership enfatizza l’empatia rispetto al potere e cerca di mostrare a tutte le persone del gruppo dove il leader è chiamato a operare per lo scopo comune che tutti vogliono raggiungere. L’obiettivo del leader deve essere quello di trovare assieme alle persone una modalità condivisa per raggiungerlo».
C’è una citazione della Bibbia che ispira il tuo agire pastorale?
«La prima cosa che mi è venuta in mente, leggendo quella domanda, è la parabola del fico sterile: “Lascialo ancora quest’anno, finché io gli zappi attorno e vi metta del concime; forse darà frutto in avvenire; se no, lo taglierai” (Luca 13,6-9). Cerco sempre di ispirarmi alla pazienza dell’agricoltore: anche di fronte a ragazzi difficili, prima di tagliare, prima di fare un intervento drastico, cerco sempre di lasciare ancora del tempo. Penso che questo insegnamento di Gesù sia molto saggio, anche se richiede una grossa dose di pazienza pastorale. Mi ricordo sempre però che non sono onnipotente: il mondo l’ha salvato Gesù Cristo, io posso fare la mia piccola parte. Penso che dare una seconda possibilità sia un bene non solo per chi riceve la seconda chance ma anche per me, che ho una possibilità di esercitare la pazienza e il dominio di me stesso anziché fare un intervento radicale».
LE PARROCCHIE
- Santa Maria della Sanità
- Cuore Immacolato di Maria
- San Pio V
- Santi Apostoli
- Madonna del Suffragio
- San Paolo
I SACERDOTI
- don Giuseppe Di Luca (moderatore)
- don Abele Belloli,
- don Virginio Casiraghi,
- don Vittorio Gatti,
- monsignor Guido Ottria,
- don Silvano Sirboni
Martina Andreula, animatrice
Martina, presentati ai lettori di Voce.
«Ho compiuto 18 anni da poco e frequento il quarto anno del liceo classico Umberto Eco ad Alessandria. All’interno dell’unità pastorale Spalti sono un’animatrice all’oratorio Cuore Immacolato di Maria, dove presto servizio da alcuni anni: attualmente mi occupo dell’organizzazione del centro estivo. Quando ero più piccola ero una “animata” e guardavo sempre con curiosità gli animatori, sperando un giorno di essere una di loro».
Ci puoi raccontare come è organizzato questo centro estivo?
«Per avere una base solida al centro estivo è necessario un sussidio da seguire, una sorta di “mappa” di riferimento per le attività della giornata. Anche se sono disponibili sussidi già fatti, noi abbiamo sempre preferito costruirlo di persona. Il nostro è un manuale di circa 80 pagine: lo scriviamo noi stessi durante l’anno, incontrandoci in un gruppo ristretto dove ci dedichiamo a questo compito. Per organizzare e scrivere il tutto, ci siamo incontrati ogni quindici giorni. Il primo incontro è il più decisivo, perché si sceglie il macro-argomento che farà da filo conduttore. Quest’anno, per esempio, è stato “Il Mago di Oz”. Cerchiamo sempre di optare per un argomento vicino al mondo dei bambini, come un cartone animato; l’anno scorso avevamo scelto le favole di Esopo. Trovata la storia principale, selezioniamo un pezzo di film che i bambini guarderanno al centro estivo ogni mattina. Da lì, definiamo un obiettivo specifico per ogni giornata e due parole chiave per guidare le attività».
Quanto ti impegna questo servizio in estate?
«Il centro estivo ha una durata di quattro settimane. Successivamente, dopo una pausa di due settimane a luglio, durante le quali ci dedichiamo all’organizzazione del sussidio per la montagna, ci saranno le due settimane a Saint Barthélemy (AO). Questo periodo rappresenta una sorta di continuità con il centro estivo, ma in un ambiente molto diverso. Mentre al centro estivo i bambini tornano a casa la sera, Saint Barthélemy il rapporto è molto più intimo: dormiamo, mangiamo, giochiamo e facciamo escursioni insieme, vivendo un’esperienza di convivenza».
Ci sono degli episodi particolari, delle iniziative di cui sei particolarmente orgogliosa all’interno dell’attività che svolgi che vuoi condividere con i lettori?
«Ci sono capitati diversi ragazzini molto agitati, e un caso che mi ha particolarmente colpito è quello di Gianni. È un bambino che ha iniziato a frequentare il nostro oratorio in quarta elementare e ora è in seconda media, quindi è con noi da quattro anni. Sua mamma ci aveva subito avvertiti che era un bambino molto esuberante, e ammetto che i primi due anni sono stati piuttosto difficili nella gestione, data la sua vivacità. Negli ultimi due anni, però, è come se fosse rinato. Abbiamo imparato ad osservarlo e abbiamo capito cosa gli serviva: compiti ben specifici. Quando giocavamo in gruppo, non si sentiva a suo agio, così ho iniziato ad assegnargli ruoli precisi, dicendogli: “Gianni mi porti tutte le pettorine dei ragazzi? Mi raccogli tutti i coni? Vieni con me e segniamo i punteggi?”. Da quel momento ha iniziato a capire di avere un ruolo fondamentale all’interno del nostro gruppo e questo lo ha aiutato a placare la sua frenesia. Soprattutto, ha imparato a interagire e giocare con gli altri, sentendosi parte integrante di un gruppo di bambini della sua età».
Ci sono altre storie come quella di Gianni che vorresti raccontarci?
«Si, questa riguarda un animatore: c’è un ragazzo, il più grande di tre fratelli, che inizialmente sembrava non trovarsi a suo agio, non voleva fare gruppo né unirsi agli altri. In questi casi noi crediamo sia sempre meglio provare a far sentire comunque accolta la persona, poiché il nostro è un gruppo inclusivo e l’oratorio dovrebbe essere un luogo di accoglienza per tutti. Questo ragazzo faticava a integrarsi, ma noi abbiamo mantenuto un contatto costante con lui, anche durante l’anno. E ora, si è sentito pronto e ha partecipato al corso animatori. È finalmente entrato a far parte del nostro gruppo, riuscendo così a integrarsi pienamente e a diventare lui stesso un animatore».
Che cosa secondo te si potrebbe fare di utile e bello nell’unità pastorale Spalti che ancora non c’è?
«Secondo me, per provare a far sentire più uniti tutti gli animatori dell’unità pastorale, un ottimo punto di partenza potrebbe essere un weekend in montagna. Il nostro gruppo di animatori si è formato proprio dopo un’esperienza di questo tipo, perché abbiamo cenato, chiacchierato e avuto modo di conoscerci in un contesto più raccolto. Si crea un’atmosfera molto diversa da quella dei grandi incontri dove i momenti per una vera interazione sono pochi. Ritengo che fare un weekend in montagna, o comunque incontrarsi più spesso – anche per un semplice pomeriggio in un oratorio – potrebbe essere utile. Nella nostra parrocchia organizziamo spesso pranzi comunitari dove c’è sempre un’atmosfera di festa e gioia. Potrebbe essere un bel gesto invitare anche gli altri partecipanti e animatori dell’unità pastorale a organizzare un pranzo tutti insieme, replicando così un’esperienza di condivisione che da noi è molto sentita».
Maria Roberta Castelli, catechista
Maria Roberta, raccontaci di te.
«Ho 45 anni, lavoro in banca e faccio la catechista nella parrocchia San Paolo da circa otto anni, attualmente sotto la guida di don Vittorio Gatti, ma avevo cominciato con don Guido Ottria».
Ci racconti com’è organizzata l’attività del catechismo?
«Al momento seguo il terzo anno di catechismo. Ci incontriamo il lunedì pomeriggio, con cadenza quindicinale. Io, in particolare, ho due gruppi per un totale di circa 30 ragazzini: questo significa che il mio impegno è settimanale, anche se per singolo gruppo l’incontro è quindicinale. La nostra catechesi non è solo rivolta ai giovani: prevede infatti alcuni incontri, nell’arco dell’anno catechistico, che vedono coinvolti anche i genitori e di cui don Vittorio è l’anima. Si tratta di quattro o cinque appuntamenti, in genere domenicali che iniziano con un momento condiviso per tutta la famiglia, cui segue una riflessione che don Vittorio fa con i genitori, mentre i ragazzi vengono coinvolti dalle catechiste in attività separate pensate appositamente per loro, per poi concludersi con un momento nuovamente condiviso. I ragazzi che incontro oggi sono decisamente più “svegli” e avanti rispetto alla nostra generazione. A volte, però, ho come l’impressione di parlare di argomenti che non hanno mai affrontato con nessuno prima: questo rende difficile catturare la loro attenzione. In questo contesto, l’impostazione tradizionale del catechismo, oggi, non funziona più: la sfida è trovare il modo giusto per parlare di Dio a persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non si sono mai poste domande sul tema. È per questo che trovo molto stimolante l’approccio introdotto con don Vittorio Gatti: includere le famiglie in un percorso che stimola e coinvolgere anche mamme e papà, che magari non frequentano la chiesa da anni. Questo cammino, che coinvolge le famiglie, è indubbiamente di grande aiuto».
Che tipo di attività fate fare alle famiglie?
«Solo per citarti un esempio, abbiamo proposto attività sul Padre Nostro o sul Credo, modulate a seconda dell’anno di catechismo frequentato. In questi incontri, c’è una parte comune per grandi e piccoli in cui proiettiamo video o immagini artistiche per stimolare la riflessione: ai genitori chiediamo di raccontare il vissuto di fede. L’obiettivo è lasciare molta libertà, incoraggiandoli a condividere esperienze personali, con domande semplici ma che aprono anche a riflessioni più profonde, come “chi ti ha insegnato a pregare?” o “che ricordo hai del tuo catechismo?”. Questa è la sezione dedicata ai genitori. Poi li dividiamo: i ragazzi si spostano per fare con noi catechiste attività semplici, come ricostruire la preghiera del Padre Nostro frase per frase, riflettendo e discutendo su parole specifiche che li colpiscono, perché a volte nemmeno conoscono la preghiera per intero. Con i genitori, in particolare, ci concentriamo sull’importanza dell’aver intrapreso un percorso comune. La scelta di far vivere ai figli l’esperienza della catechesi cristiana è una decisione che li coinvolge in prima persona: su questo aspetto lavoriamo molto».
Che reazioni riscontri nelle persone davanti a queste proposte?
«Ovviamente come in ogni situazione ci sono gli indifferenti, ma possiamo contare su un bel gruppo di famiglie che sono diventate un punto di forza attivo della nostra comunità. Alcuni partecipano al coro, ognuno come può si inserisce in maniera propositiva nella vita parrocchiale. Anche se si tratta ancora di una minoranza, il coinvolgimento delle famiglie comincia a portare qualche frutto. Un’iniziativa che abbiamo introdotto da qualche anno e che sembra essere molto apprezzata, è quella che potremmo definire la “gita culturale” a conclusione dell’anno catechistico. L’anno scorso i ragazzi del secondo anno hanno visitato Santa Maria di Castello, mentre quest’anno abbiamo organizzato una visita guidata in Duomo. In entrambe le occasioni, don Vittorio si è reso disponibile come guida, spiegando la storia e l’arte ai ragazzi e alle loro famiglie. Questo momento condiviso piace moltissimo sia ai giovani che ai genitori».
Queste proposte funzionano?
«Secondo la mia esperienza sì, perchè coinvolgono tutta la famiglia e sono proposte trasversali alle generazioni. Nonostante ciò, non possiamo considerare queste attività la “panacea” di tutti i mali, ci sono ancora molte lacune da colmare. A volte, quando invito i ragazzi a messa mi sento rispondere frasi come: “Ma mia mamma domenica non mi porta mai perché deve fare le pulizie e deve andare a fare la spesa…”».
In queste condizioni, come si può riuscire a coinvolgere e interessare i ragazzi?
«Si tratta di una sfida molto difficile: ammetto di non avere una risposta definitiva. Posso dirti però che un momento estremamente aggregante, che aiuta anche a far percepire la bellezza della partecipazione alla Messa comunitaria, sono i campi estivi. Al termine dell’anno catechistico, per i ragazzi che hanno ricevuto la Cresima e la Comunione, proponiamo un campo estivo a Torgnon durante il quale si gettano le basi per poi riprendere e proseguire un cammino insieme. Attualmente abbiamo un gruppo di ragazzi che hanno ricevuto i sacramenti quattro anni fa, i “Faladomi”, che continuano ad incontrarsi in parrocchia, con cadenza quindicinale o mensile, per un momento di riflessione, unito ad attività di svago, che si conclude con una cena condivisa o una pizza. Portano avanti anche alcune attività di volontariato, come la colletta alimentare. A seguire questi gruppi è don Vittorio con l’aiuto di catechiste e animatori».
Ma tu perché fai la catechista?
«Per non tenere la mia fede come “una candela sotto il moggio”: provo a testimoniarla mettendomi a disposizione del Signore che semina. Magari non subito, non tra qualche anno, ma so che a suo tempo, quel seme, di cui i ragazzini di oggi sembrano dimentichi, potrà portare frutto nei giovani e negli adulti di domani. Ecco, mi piacerebbe trasmettere ai ragazzi il desiderio di cercare dentro di loro quel seme e la bellezza di amarlo e coltivarlo con impegno e con gioia».