Intervista esclusiva a monsignor Augusto Paolo Lojudice
Nato a Roma il 1° luglio 1964 e ordinato sacerdote il 6 maggio 1989, monsignor Augusto Paolo Lojudice è attualmente arcivescovo metropolita della diocesi di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino, nominato nel 2019 da papa Francesco. Che, a insaputa dell’interessato, domenica 25 ottobre durante l’Angelus ha annunciato la sua creazione a cardinale nel prossimo concistoro. E monsignor Lojudice, anzi don Paolo, come lo chiamano tutti, è caduto letteralmente dalle nuvole… Oggi ci ha concesso questa bella e ampia intervista, dopo essersi messo in isolamento fiduciario per essere venuto a contatto con una persona positiva. «Ma sto benissimo» chiarisce subito. E allora partiamo.
Don Paolo, che cosa è accaduto domenica 25 ottobre?
«Mentre ero nel mio studio, dopo mezzogiorno, uno dei miei collaboratori è venuto a riferirmi le parole del Papa. “Cos’è? Uno scherzo?” ho risposto io, e ho subito controllato su Internet… era vero, non me l’aspettavo assolutamente. E pensare che qualche giorno prima il Santo Padre mi aveva ricevuto in udienza privata, e a un certo punto mi aveva chiesto: “Ma tu che fai questa domenica?”. Gli avevo risposto che c’erano le cresime… Il lunedì successivo il Papa mi ha richiamato, al pomeriggio, e scherzando mi ha detto: “Ecco perché ti ho chiesto che cosa facevi domenica: volevo vedere se eri libero a mezzogiorno!”. E poi si è messo a ridere».
Sentendo queste cose, non si può fare a meno di pensare che questo Pontefice sia un po’ “sui generis”…
«Confesso di averlo sempre pensato, sin dal 13 marzo 2013, giorno della sua elezione. Mi trovavo nel seminario di Roma di cui ero padre spirituale e seguivo l’elezione davanti alla tv. Quando ho sentito il cardinale Tauran fare il nome di Bergoglio, immediatamente l’ho collegato al racconto che mi aveva fatto uno dei miei seminaristi, che aveva collaborato con lui quando era ancora vescovo a Buenos Aires. E dunque sapevo che tipo era, ne avevo già da allora un giudizio estremamente positivo: era il Papa che avrei voluto per la Chiesa. Ho pensato subito, quasi istintivamente, che con lui avrei avuto sicuramente a che fare. Ma da qui a quello che poi è successo…».
Facciamo un passo indietro. Dal 2005 al 2014 lei è stato direttore spirituale del Pontificio Seminario Romano Maggiore di Roma. C’è qualcosa a suo avviso che dovrebbe cambiare nella formazione dei futuri sacerdoti?
«Eh… (sorride) questo è un domandone! Qualunque risposta rischia di essere generica, le esperienze sono tante. Certamente è vero che lo schema fondamentale della vita dei seminari è generalmente molto tradizionale, quasi da Concilio di Trento, scherzando ma non troppo. Nella mia esperienza di nove anni in seminario ho visto un forte tentativo di cercare soluzioni e strade nuove. In ogni incontro ci si chiedeva: “Ma quello che facciamo è adeguato, ci aiuterà a formare i preti del domani?”. Credo che oggi quello che conta sia avere gli occhi aperti: un giovane che chiede di entrare in seminario è già formato, ha un suo mondo interiore e un modo di vedere la realtà ben definiti. E allora quello che conta è l’avvio, l’esordio. In seminario io curavo la prima accoglienza: all’inizio c’era solo un appuntamento mensile, poi decisi di introdurre la settimana residenziale e successivamente un tempo estivo di vacanza e convivenza. Da lì si accedeva all’anno propedeutico, un’esperienza di vita in comune al termine della quale si poteva entrare in seminario. Ecco, io a quel punto le persone le conoscevo, ero ragionevolmente sicuro di loro. Anche se, lo sappiamo bene, c’è un aspetto misterioso e insondabile dell’animo umano: possono esserci zone oscure che non vengono fuori subito, o che vengono volontariamente occultate. Queste sono le più pericolose».
Lei è tuttora Segretario della Commissione Episcopale per le migrazioni.
«La Cei è strutturata in commissioni che si occupano di vari temi, e tra questi c’è la pastorale delle migrazioni. Durante gli anni del mio servizio in seminario mi sono trovato a occuparmi, per diversi motivi, dei rom: non li ho cercati, ma non li neanche rifiutati. Poi ho cominciato a collaborare con la “Migrantes” della diocesi di Roma, che si è lasciata coinvolgere dalle mie iniziative. Eravamo diventati una piccola squadra: io facevo l’incursore, rompevo il ghiaccio; loro mi davano sostegno. Cominciai a frequentare anche il direttore della “Migrantes” della Cei, che allora era monsignor Giancarlo Perego, il quale poi mi chiese di diventare segretario. In questi anni abbiamo cercato di spiegare alle comunità che quello delle migrazioni è sì un problema, ma è un problema oggettivo e come tale va affrontato, senza demagogia. Ci vuole un’accoglienza intelligente, come ha detto qualche tempo fa il Papa. Quello della migrazione è un tema epocale».
Non gliel’ho ancora chiesto: quando ha conosciuto Francesco?
«L’ho incontrato la prima volta il 3 maggio 2015, in una parrocchia di Ostia, dopo che mi aveva nominato vescovo ausiliare. Ci siamo rivisti qualche altra volta, in vari contesti. E l’anno scorso, quando mi chiamò per mandarmi a Siena, restammo un’oretta a parlare insieme».
E il Papa perché ha scelto lei come cardinale?
«Forse, pensandoci bene, di particolare ci fu il raduno internazionale del popolo rom nell’ottobre del 2015. Una donna rom fece un saluto al Papa e poi si fermò un momento a parlare con lui, chiedendogli di essere battezzata. Francesco allora le domandò da chi era seguita nel suo cammino, e lei indicò me: “Da don Paolo”. Io ero seduto sul palco della Sala Nervi, e il Papa girandosi verso di me fece un gesto con la mano al mio indirizzo, come per dire: “Io e te ci sentiamo più tardi”. Giorni dopo il Santo Padre mi chiamò proprio per il battesimo di quella donna, e così parlammo un po’. Mi richiamò dopo una settimana e mi disse: “Ci ho pensato bene: facciamolo qui da me a Santa Marta, decidi tu la data”. Io, allora: “Facciamo il 26 dicembre?”. E Francesco: “A me sta bene! Fai così, noleggia un pullman e poi me ne occupo io”. Ebbene, quel 26 dicembre arrivammo a Santa Marta e il Papa mi venne incontro con una busta in mano: “Questo è per il pullman, mi raccomando”, e poi iniziò la celebrazione. Aveva voluto pagare lui… d’altronde, mi aveva avvisato! Da lì in poi, ogni volta che ci sentivamo mi chiedeva di quella signora e della sua famiglia».
Lei adesso che cosa prova?
«Sono sereno, anche se mi sento inadeguato… ma chi può dirsi adeguato di fronte al Mistero di Dio? Essere cardinale è un servizio che si fa alla Chiesa, una Grazia che chiama a una responsabilità più grande, non un’onorificenza o una “medaglietta” di cui vantarsi. Sento anche la libertà di non aver cercato nulla: non ho chiesto niente, ed è arrivato questo dono».
Andrea Antonuccio
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