Gli ultimi anni del pugile campione
Gli ultimi momenti della sua vita, Muhammad Ali (nato nel 1942 come Cassius Marcellus Clay Junior) li vive nella piena pace spirituale. Quelli prima erano stati anni di battaglie, dentro e fuori dal ring. Oltre ai successi mondiali, il pugile di Louisville portava avanti una lotta personale contro le segregazioni razziali negli Usa e le guerre di ogni tipo.
Sul ring «punge come un’ape, vola come una farfalla», ma fuori cura anche il suo lato spirituale: si converte all’Islam. E la fede è al centro anche negli ultimi anni, quando la sindrome di Parkinson si impossessa del suo corpo. Di quei momenti ne parla Federico Buffa nel libro “Muhammad Ali – Un uomo decisivo per uomini decisivi”: «Passava il tempo a cercare incongruenze dei Vangeli di Marco e Matteo. […] Alternava senza problemi la parola di Dio alla parola di Allah».
E poi c’è un altro aneddoto: «Per anni passò la vigilia di Natale chiamando numeri a caso dell’elenco telefonico di Manhattan, augurando di tutto a tutti e sentendosi regolarmente mandare a quel paese da gente che ovviamente non credeva neppure un secondo che fosse davvero lui. Un Natale chiamò anche Thomas Hauser, il suo principale biografo, che obiettò: “Grazie Muhammad, però ammetterai che è perlomeno divertente che un mussulmano come te chiami un ebreo come me per augurargli buon Natale…”. Ali, nemmeno glaciale, addirittura minerale, rispose: “Perché, non stiamo tutti andando dalla stessa parte?“».
Ali lascia questa terra nel 2016. Un suo caro amico, Kareem Abdul-Jabbar, famoso cestista statunitense, dirà: «Ha fatto in modo che tutti gli americani, bianchi e neri, potessero camminare a testa alta. Io sarò pure alto 2 metri e 18, ma non mi sono mai sentito così alto come quando ero nella sua ombra». Un uomo di tutti. Questo era Muhammad Ali.
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