Il 9 marzo è iniziato il tradizionale appuntamento con i Martedì di Quaresima, promossi dalla Diocesi di Alessandria in collaborazione con il Centro di cultura dell’Università Cattolica e il Movimento ecclesiale di impegno culturale (Meic), Gruppo di Alessandria. Il titolo di questa edizione è “L’assenza dei padri, la presenza del Padre”, sottotitolo: “Tre web-incontri alla luce della Patris corde di papa Francesco”. Il primo appuntamento ha visto come relatore don Claudio Doglio, parroco della collegiata di Sant’Ambrogio a Varazze (SV) e docente di esegesi biblica alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Riportiamo l’ultima parte della sua riflessione, che potrete trovare in forma completa sul canale YouTube della Diocesi di Alessandria, all’indirizzo bit.ly/MQDoglio2021.
Professor Doglio, come la preghiera di Gesù, il Padre Nostro, può considerarsi la sintesi del suo Vangelo?
«Questa è un’espressione di Tertulliano, uno dei padri della Chiesa dei primi secoli, il quale definì il Padre Nostro come “Breviarium totius evangelii”, ovvero il riassunto di tutto il Vangelo. Gesù è un uomo che prega, e il suo atteggiamento orante interessa ai discepoli, che vedendolo pregare chiedono: “Insegna anche a noi a pregare”. Il Padre Nostro non è tuttavia la formula che serve come preghiera standard, ma è una scuola di preghiera. Riportano il Padre Nostro sia Matteo che Luca, ed è introdotto con un momento di catechesi da parte di Gesù il quale raccomanda ai discepoli di non pregare come i pagani, che credono di essere esauditi a forza di parole. Quasi che dovessimo convincere Dio di quello che ci serve. L’idea del moltiplicare le parole per convincere Dio, o quasi piegarlo, parte da una sfiducia nei suoi confronti, parte da una idea sbagliata di Dio, che non conosca che cosa ci serve, che non voglia il nostro bene. E quindi, in qualche modo, la preghiera rischia di essere corrotta dalla nostra natura ferita dal peccato, sempre rovinata da quella voce del serpente che continua a ripetere: “Non ti fidare, fai di testa tua” oppure “Dio è invidioso, Dio non vuole il tuo bene”. Sembra all’umanità segnata dal peccato che convenga tenere buono Dio, allora lo si prega per dargli quello che vuole, in modo tale che sia contento e che ci tratti meglio, in modo tale da non avere qualche brutta sorpresa. Oppure, per ottenere un beneficio e chiedere il favore. L’uomo primitivo comincia a pregare quando si accorge che le piogge sono eccessive: se non piove il suo orto secca, se piove troppo perde la coltivazione, allora non potendo controllare le piogge, chiede a Dio che mandi la pioggia sul suo orto e che eviti l’alluvione. Sono i due aspetti: ottenere un beneficio ed evitare un danno. La relazione personale con Dio è una realtà nuova, è la realtà portata da Gesù, è la realtà che Gesù rivela: non il fatto di chiedere a Dio di far piovere sul mio orto, o di non far piovere troppo sul mio orto, ma il relazionarsi con Lui con atteggiamento filiale, generoso, gratuito, affettuoso. Ed è questo l’insegnamento di Gesù: non pensate di convincere Dio, non cercate di fargli fare quello che volete voi, non dovete spiegargli di che cosa avete bisogno: lo sa, lo vuole più di voi e prima di voi. Quindi, quando pregate, dite che vi fidate di Lui. E le sette formule che contengono il Padre Nostro sono tutte, in qualche modo, legate alla dimensione filiale dell’uomo che si rapporta a Dio, ma con un atteggiamento di fiducia grande. Dove le prime tre domande sono relative proprio a Dio: mi interessa il tuo nome, il tuo regno, la tua volontà. E non ci insegna a pregare in modo privato, ma comunitario. Quando prego da solo dico: “Padre nostro”, non “Padre mio”. Ci ha insegnato a sentire di non essere degli individui isolati, ma delle persone in una realtà comunitaria e familiare che si rapportano con il Padre che ha cura ed è disposto a dare. Ma dall’altra parte, Gesù ci ha insegnato a essere figli. Faccio un esempio: la prima domanda, “Sia santificato il tuo nome”, è lontana dal nostro modo di parlare abituale, dobbiamo fare un po’ di fatica per capirne il significato. Se partiamo dall’idea che il nome è la persona conosciuta, santificare il nome non vuol dire farlo diventare santo, ma mostrarlo per quello che è: santo è l’essere di Dio che è separato, è diverso da quello che immagini tu. Santo, nel linguaggio della rivelazione biblica, indica l’alterità divina: Dio è oltre, è altro, è trascendente. “Santo, santo, santo” ha sentito Isaia. Ora, Dio, che è santo, deve essere riconosciuto come tale. Allora, che cosa significa santificare il nome di Dio? Riconoscere Dio per quello che è. E allora che cosa chiedo al Padre, se non che io, come figlio, possa far vedere la paternità di Dio. Lo dico con un linguaggio infantile: è tipico dei genitori raccomandare ai bambini, in certe occasioni, di “non farmi fare brutta figura”. Perché, quando un figlio si comporta male, fa fare brutta figura ai genitori. Può capitare, qualche volta, che tornando a casa il genitore dica al bambino: “Ma che figura mi hai fatto fare!”. Perché se il bambino si comporta male, chi lo vede dice: “È colpa dei genitori, non gli hanno insegnato, vedi suo padre”. Io, che sono figlio, posso far fare brutta figura a Dio, che è mio Padre. Un figlio che si comporta bene è un elogio per il padre, è una soddisfazione per la madre: il genitore è fiero di questo ragazzo che dà così bella prova di sé. E santificare il nome di Dio corrisponde al linguaggio familiare del “far fare bella figura a Dio”. Da figlio dico al papà: “Aiutami, perché desidero farti fare bella figura. Però, rischio seriamente di fartela fare brutta: vedono me e criticano te”. Questo è un dramma, perché “il tuo nome non è santo, per colpa mia. E vorrei che non fosse così, desidero santificare il tuo nome, farti vedere per quello che sei”. Oppure, l’invocazione che abbiamo imparato a tradurre in un altro modo recentemente, “non ci indurre in tentazione” o “non abbandonarci alla tentazione”. Anche in questo caso, la formulazione corrisponde a una autentica preghiera da figlio, con un atteggiamento infantile ma nel senso buono. Mi immagino la scena del bambino che col suo papà cammina in montagna. A un certo momento, passando vicino a un dirupo, proprio perché vede una scarpata scoscesa e si rende conto del pericolo, il bambino prende la mano del papà e gli chiede: “Stammi vicino, tienimi, non lasciarmi perché qui c’è il pericolo”. La preghiera del figlio, nel Padre Nostro, è questa preghiera di fiducia. Ma non ci penso neanche che Dio possa spingermi nel burrone. Non mi rivolgo a mio papà perché ho paura che mi butti giù, ma gli chiedo di tenermi per mano, perché sto passando in un punto pericoloso, che mi fa paura, intravedo la possibilità di un pericolo, di un danno, e chiedo l’aiuto, la vicinanza, la presenza. Chiedo quello che desidero e lo esprimo proprio con questa fiducia. Ecco, il Padre Nostro è, in qualche modo, la sintesi del Vangelo, perché è l’annuncio di una paternità di Dio che ha a cuore l’umanità, e insegna che l’atteggiamento corretto dell’uomo è quello del figlio che si fida. Gesù rivela questo non con degli insegnamenti astratti, ma con la sua esperienza, si fida del Padre fino alla morte in croce: “Non la mia volontà, ma la tua” oppure: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Quella relazione del figlio, che ha la stessa idea del Padre e che è pronto a dare la vita come il Padre, è la sintesi del Vangelo. È la grande rivelazione di Gesù».
Come hanno sviluppato i primi scritti cristiani la rivelazione di Gesù sul Padre?
«Hanno ricavato proprio questa idea importante. La sintetizzo con una espressione della Lettera ai Romani, alla fine dello splendido capitolo 8: “Dio è per noi”. Senza adoperare il termine “Padre”, Paolo in quel modo esprime perfettamente la mentalità cristiana: siamo diventati figli e Dio è per noi, non semplicemente con noi, ma a nostro favore. Più di così non si può dire, è il superamento della mentalità originale che dubitava di Dio, e che per superbia lo ha sfidato con un atteggiamento di sfiducia. Invece i primi pensatori cristiani, proprio gli apostoli e in particolare Paolo e Giovanni, hanno sviluppato questo senso della figliolanza: riconoscere che Dio è Padre equivale a dire che noi siamo figli. Qui credo che bisogna stare attenti, perché c’è il rischio di una banalizzazione del concetto. Troppe volte si adopera il termine “Figlio di Dio” per indicare semplicemente l’oggetto di amore da parte di Dio. L’immagine della figliolanza è adoperata, negli scritti del Nuovo Testamento, in modo teologico e profondo. Non siamo per natura figli di Dio. Nella Lettera agli Efesini si adopera un’espressione particolare, che non è tradotta neanche alla lettera nel testo italiano, si dice: “Eravamo per natura meritevoli di ira”. Letteralmente il testo dice: “Per natura, eravamo figli dell’ira”. Ira nel linguaggio biblico significa rottura dei rapporti con Dio. Quindi “figli dell’ira” vuol dire nemici di Dio, separati da lui per natura. Quindi non basta essere uomini, esseri umani, per essere figli di Dio. Siamo creature. Tutti gli uomini sono creature di Dio: creatura eletta, creatura somma, creata a somiglianza di Dio. Ma, lo diciamo sempre nel Credo, Dio ha un Figlio solo: l’unigenito. E se è unigenito, vuol dire che è l’unico a essere stato generato. Per gli ebrei e i musulmani è già tanto così, perché nella loro ottica nemmeno questo si può dire: sia gli ebrei che i musulmani rifiutano l’idea che Dio abbia un Figlio, assolutamente separato, non ha figli. Quindi è semplicemente una metafora, un modo per dire: “Tratta gli uomini con atteggiamento benevolo”. Come un parroco che coi suoi ragazzi si comporta da padre. Ma, invece, la nostra fede cristiana dice che non è una metafora: Dio è veramente Padre che ha generato il Figlio dall’eternità. Non c’è mai stato un momento in cui Dio non sia Padre, ma non c’è mai stato un momento in cui Dio non sia Figlio. Il Figlio è eterno come il Padre. Quindi è divina la paternità ed è divina la figliolanza: è divino dare ed è divino ricevere. In Gesù, unico Figlio, noi abbiamo la possibilità di diventare figli. Ecco la grande e originale predicazione cristiana: ogni essere umano può diventare Figlio di Dio, attraverso la persona di Gesù, unico Figlio veramente generato dal Padre. Paolo adopera la metafora della “adozione”, dice che noi siamo figli adottivi. Rende bene l’idea, ma ha un difetto, perché l’adozione è semplicemente un atto giuridico, una finzione di legge. Facciamo finta che questa persona sia figlia di quell’altra persona, viene messo per iscritto un documento e risulta così. Ma non ne viene niente a livello dell’essere, l’adozione è una formalità estrinseca. Invece, quello che avviene nella esperienza cristiana è una autentica trasformazione dell’umanità, per cui siamo adottati come figli, ma non riceviamo solo il nome da Dio, riceviamo l’essere. Veniamo ri-generati: non si può entrare nel Regno di Dio, se non si ri-nasce, se non si nasce dall’alto, di nuovo. Ed è proprio questa generazione che ci fa figli, l’esperienza fondamentale, che viene proposta da questi autori, che mentre sottolineano l’essere cristiano come figliolanza, sottolineano la paternità di Dio che è autorità generativa. E, alla base di tutto, c’è la relazione di affetto e di fiducia. Giovanni potrà dire “Dio è amore”, proprio perché non è un isolato, non è un individuo, ma una comunità di persone. Il Padre da sempre genera il Figlio, e il loro amore è la persona dello Spirito. Per cui sono un’autentica famiglia di persone che si amano. Dunque, non è l’esperienza della nostra famiglia, delle nostre esperienze di padri o delle nostre esperienze di fratelli, che spiegano la Divinità. Ma è proprio il contrario: la rivelazione di Gesù ci fa capire che abbiamo dentro il desiderio di quella paternità, di quella figliolanza, di quell’amore, perché siamo stati creati a immagine di quella comunità del Padre e del Figlio che si amano perfettamente. È il sogno della nostra vita ed è possibile grazie a Gesù Cristo, rivelatore del Padre».