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Il carattere ideologico del ddl Zan è il suo limite maggiore

Parla il professor Renato Balduzzi, costituzionalista

Professor Balduzzi, partiamo dal titolo: “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Questo termine, “disabilità”, scompare negli articoli chiave: quelli che introducono la Giornata contro la discriminazione e quello che obbliga le scuole a una Giornata apposita. Perché, secondo lei?

«Premetto che quanto dirò muove da due ottiche: quella giuridico-costituzionalistica e quella culturale. Circa la sua domanda, presumo che dipenda anche dalla circostanza che già esiste una Giornata internazionale delle persone con disabilità (il 3 dicembre, ndr). Peraltro, la disarmonia che lei rileva sottolinea uno dei caratteri problematici del ddl, che accosta situazioni assai diverse, come la disabilità rispetto alle questioni concernenti l’orientamento sessuale: mentre non c’è discussione culturale sull’importanza di organizzare un sistema di tutele per la persona con disabilità, sull’orientamento sessuale questa discussione c’è. Si tratta di un aspetto particolare di un problema più ampio che il ddl pone: nel momento in cui vado a integrare la legge Mancino, che intende contrastare la discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, introducendo la controversa questione del gender, sono costretto a introdurre una clausola di salvaguardia della libertà di pensiero, clausola che tuttavia non vale per le discriminazioni attualmente colpite dalla legge, ma soltanto per quelle attinenti al gender. E questo conferma la profonda differenza tra le fattispecie che si vogliono assimilare».

Vediamo ora alcuni articoli.

Art. 1.
(Definizioni)
1. Ai fini della presente legge:
a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico;
b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso;
c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi;
d) per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione.”

Queste definizioni non sono unanimemente approvate dalla comunità scientifica, e nemmeno condivise da tutte le associazioni Lgbt. Come è possibile che una legge, che ha valore universale, metta in campo definizioni così parziali (o ideologiche)? E che queste definizioni vengano poi divulgate in sedi istituzionali (come le scuole, per esempio?).

«Lei sottolinea il carattere ideologico del progetto di legge. Penso che si tratti, sotto il profilo culturale, del suo limite maggiore, nel senso che si vuole, attraverso la prospettazione della sanzione penale per opinioni e comportamenti considerati politicamente scorretti, giungere al risultato di coonestare le teorie del gender. Si chiede cioè al legislatore di farsi pedagogo, e questo, sorprendentemente, da parte di orientamenti culturali che hanno sempre negato la funzione parenetica della legislazione. Senza contare l’ulteriore contraddizione insita nell’impiego della sanzione penale in situazioni nelle quali è davvero problematico isolare il disvalore giuridico del fatto: se la condotta esprime tale disvalore in quanto integra fattispecie di reato già esistenti (violenze, ingiurie, ecc.), perché si vuole introdurre queste nuove figure di reato? A tutta evidenza, per colpire gli orientamenti culturali attorno a un tema controverso e creare nuovi paradigmi culturali. E questa appunto è ideologia, nel significato negativo del termine. Aggiungo che la clausola di salvaguardia della libertà di pensiero, che il testo in discussione introduce, non viene a fare parte della norma incriminatrice, ma sta a sé, e dunque, più che circoscrivere il fatto che costituisce reato, sembra prefigurare l’esimente dell’esercizio di un diritto idoneo ad escluderne la punibilità (come prevede, in via generale, l’art. 51 del codice penale): in tal modo, la condotta rimproverata resterebbe illecita, e dunque di essa viene sottolineato il disvalore, ancorché non punibile in quanto esercizio della libertà di pensiero. Che è appunto, il risultato culturale cui si vuole pervenire: ma proprio questo fa dubitare della compatibilità costituzionale, oltre che della reale opportunità, di tutta l’operazione».

Art. 4.
(Pluralismo delle idee e libertà delle scelte)
1. Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.

Ecco la cosiddetta clausola di salvaguardia. Non le sembra che, come ha affermato recentemente Giovanni Maria Flick (già presidente della Corte costituzionale), questo articolo affidi alla legge ordinaria quello che è già previsto dalla Costituzione nell’articolo 21? Il ddl, inoltre, prevede “condotte legittime”: chi può certificare la “legittimità” di un’opinione?

«Se si è pensato a una necessaria clausola di salvaguardia, significa che il problema di tutelare la libertà di opinione evidentemente esiste. E non solo la libertà di opinione, perché qui vengono in gioco la libertà della scienza, della ricerca, oltre che la libertà di insegnamento, tutte situazioni garantite con forza dalla Costituzione. Si potrebbero anche aggiungere le norme che prevedono la libertà di esercizio del magistero della Chiesa cattolica, come riconosciuto dal vigente accordo concordatario e delle altre confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa con lo Stato. Quando una condotta che costituisce manifestazione di una delle libertà sopra considerate integra la fattispecie di istigazione a compiere atti di discriminazione per motivi legati al gender? La risposta del progetto di legge è: quando non sia idonea a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori e violenti. Ma la verifica di una tale idoneità, come pure della legittimità delle condotte riconducibili al pluralismo delle idee che lei opportunamente menziona, lascia all’interprete e all’applicatore uno spazio enorme di discrezionalità, che a me – lo dico da costituzionalista – sembra incompatibile con i principi costituzionali appena richiamati. Una clausola di salvaguardia dovrebbe escludere dalla tutela soltanto gli atti che siano volti a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti, e non gli atti “idonei”: il non volere dare rilievo all’elemento soggettivo mi pare confermi quanto già ho detto circa il carattere problematico della normativa in questione».

Art. 7.
[…]
3. In occasione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia sono organizzate cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile per la realizzazione delle finalità di cui al comma 1. Le scuole, nel rispetto del piano triennale dell’offerta formativa di cui al comma 16 dell’articolo 1 della legge 13 luglio 2015, n. 107, e del patto educativo di corresponsabilità, nonché le altre amministrazioni pubbliche provvedono alle attività di cui al precedente periodo compatibilmente con le risorse disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

L’articolo 7 (è sparita dal testo la discriminazione contro le disabilità) istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia il 17 maggio di ogni anno, con cerimonie, incontri e “ogni altra iniziativa utile” che devono essere inserite anche nelle scuole. Secondo lei è opportuno su questo tema introdurre una giornata che, oltre alla giusta lotta contro le discriminazioni, affronti questioni educative delicate, come l’identità di genere, che dalla legge viene data per scontata e unanimemente accettata?

«Appare chiaro che, muovendo da un presupposto condivisibile (la lotta contro le discriminazioni, che sono lesive della dignità di ciascuna persona), si vuole arrivare a un risultato divisivo e controverso, quello appunto di impedire o limitare una discussione culturale proprio sui caratteri e sui limiti del cosiddetto gender. Ricordo che Papa Francesco, al quale non si può certo ascrivere disinteresse verso le condizioni concrete della vita delle persone e mancata comprensione nei confronti delle tante differenze presenti all’interno della società contemporanea, ha messo in guardia più volte rispetto al pericolo di essere colonizzati da “una ideologia che nega la differenza e la reciprocità naturale tra uomo e donna”. Ricordo anche un bel documento del 2019 della Congregazione vaticana per l’educazione cattolica, che porta la firma del “nostro” card. Versaldi, intitolato significativamente “Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione”».

Art. 10.
(Statistiche sulle discriminazioni e sulla violenza)
1. Ai fini della verifica dell’applicazione della presente legge (…) l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), assicura lo svolgimento di una rilevazione statistica con cadenza almeno triennale. La rilevazione deve misurare anche le opinioni, le discriminazioni e la violenza subite e le caratteristiche dei soggetti più esposti al rischio.

“La rilevazione deve misurare anche le opinioni”. In pratica un ente apposito dovrà monitorare le espressioni pubbliche riguardo le discriminazioni di genere e registrarle insieme agli atti discriminatori. Una opinione viene dunque equiparata a una azione, e come tale può essere eventualmente punita. Non le sembra che questo articolo possa introdurre il reato di opinione?

«L’articolo in questione, come altri punti del ddl, è davvero scritto male. Alla lettera si dovrebbe riferire alle opinioni dei soggetti più esposti al rischio, il che parrebbe comprensibile. Ma lo si può intendere anche come censimento di opinioni asseritamente discriminatorie, e dunque valutate non quali condotte volte a discriminare, ma, appunto, come opinioni, cioè come elementi della riflessione culturale. Il ddl, che andrebbe depurato e illimpidito se davvero si vogliono contrastare le discriminazioni e le violenze, e non invece tendere al pensiero unico imposto dalle leggi».

Un’altra riflessione, professor Balduzzi: ogni legge dovrebbe essere tassativa e certa. A lei non sembra che nel ddl Zan queste due caratteristiche manchino?

«La critica che lei fa va a toccare uno dei punti più critici del ddl. Proprio perché il risultato che il ddl vuole raggiungere è di natura culturale, la vaghezza e la genericità della formulazione ne sono un inevitabile corollario. Questa circostanza naturalmente accentua i possibili profili di illegittimità costituzionale del testo di cui discutiamo: la determinazione di ciò che in concreto costituisce salvaguardia rimarrebbe in larga misura confinata in un ambito interpretativo, aumentando l’incertezza sull’ambito delle condotte punite penalmente, che di fatto potrebbe suscitare la propensione ad usare lo strumento della denuncia penale per colpire la manifestazione di orientamenti dissenzienti rispetto a tesi dominanti o supposte tali».

Una considerazione conclusiva, professore. Nel giugno del 2020 la Cei, in un suo comunicato, dichiarava che una «eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide». Oggi, invece, il cardinale Bassetti, presidente della Cei, si augura che «nella formulazione [del ddl] non si sconfini in altri campi, in terreni pericolosi come la cosiddetta “identità di genere”». I toni sembrano essere più concilianti, rispetto alla dichiarazione di un anno fa. Che cosa è cambiato, secondo lei?

«Forse alcuni commentatori hanno esagerato le differenze tra le posizioni dell’anno scorso e quelle attuali. I nostri vescovi a me sembrano consapevoli della circostanza che siamo in una temperie culturale dove ciò che conta, per i credenti, è porre domande e invitare a riflettere, piuttosto che scagliare anatemi o giocare di sponda con questa o quella maggioranza politico-parlamentare. Credo che a questo atteggiamento abbiano contribuito molto le sollecitazioni e il metodo di papa Francesco. E penso anche che con questo atteggiamento, che qualificherei dialogico, i vescovi chiedano a tutta la comunità ecclesiale, e in particolare a noi laici, di prendere parola e concorrere alla discussione pubblica, non in uno spirito di scontro, ma di ricerca delle soluzioni meno lontane da una comune base valoriale che è importante consolidare o ricostruire: che è poi, mi pare, il significato profondo della distinzione tra pluralismo e relativismo».

Andrea Antonuccio

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