Il seminarista Michele Martinetti è stato ammesso agli Ordini Sacri
«In questo mio cammino non sono solo, c’è tanta gente che prega per me»
Domenica 30 marzo, con una celebrazione solenne nella Cattedrale di Alessandria, il seminarista Michele Martinetti (nel tondo) è stato ammesso agli Ordini Sacri. Valenzano, 24 anni, Michele è in seminario da due anni e mezzo. Gli abbiamo chiesto come ha vissuto questo suo primo passo verso l’ordinazione sacerdotale.
Michele, com’è andata?
«È stato tutto molto particolare e bello. Da un lato, ero consapevole che si trattava di un passo importante nella mia formazione, ma anche sicuro che in questo mio cammino non sono solo, sia a livello personale sia a livello comunitario. A Genova e ad Alessandria c’è tanta gente che prega per me e mi sta vicino».
Cosa significa essere ammesso agli Ordini Sacri?
«Essere ammesso agli Ordini Sacri significa che la Chiesa riconosce in te la presenza di un germe autentico di vocazione al sacerdozio. Non che prima non ci fosse, ma dopo anni di formazione la comunità inizia con te un percorso e riconosce che stai andando nella direzione giusta. Questo è il primo passo, che non ti consente di fare nulla “in aggiunta” a quello che già fai, ma è uno stimolo a vivere ancora più seriamente il tuo percorso di discernimento verso il ministero. E a viverlo con ancora più gioia ed entusiasmo, per crescere nella preghiera, nel servizio e in tutti gli ambiti in cui puoi relazionarti con il Signore».
C’è un santo a cui fai riferimento?
«Parto dal mio, san Michele, a cui sono molto legato. Se penso ad altre figure di santi che mi hanno accompagnato, mi viene in mente San Giovanni Bosco. L’ho conosciuto quasi per caso nel 2018, grazie al mio parroco: ho scoperto una figura straordinaria, che ha saputo vivere il rapporto con il Signore in modo intenso e pieno, ancora prima di diventare sacerdote. È un esempio: un uomo non può pretendere di diventare un buon sacerdote o un buon padre, se prima non sperimenta una relazione piena con il Signore».
Quali persone vuoi ringraziare?
«Sono tante (sorride). A cominciare dalla mia famiglia, fino alla comunità formativa di Alessandria e di Genova. Poi il mio parroco, don Santiago Ortiz. E la mia comunità delle parrocchie di Valenza».
La tua famiglia come ha preso la tua scelta di entrare in seminario?
«L’ha presa molto bene. Siamo una famiglia tradizionalmente molto credente, sono contenti di questa scelta. È una decisione a cui forse non si è più abituati, è strano che un figlio dica: “Ciao, mamma e papà, vado in seminario” (sorride). Loro invece mi hanno sempre accompagnato in questa scelta. È molto bello che i miei genitori mi sostengano».
La tua chiamata nasce nella parrocchia.
«Sono sempre cresciuto in parrocchia, tra catechismo, campi estivi e coro parrocchiale. Ho sempre “bazzicato” intorno alla parrocchia. Questo, però, non significa automaticamente credere seriamente nel Signore e intraprendere questa strada. Poi, durante la Quaresima del 2022, dopo quattro anni di conoscenza con il mio parroco, ci siamo detti: “Prendiamoci questo periodo per pensarci e pregare. Dopo Pasqua, vediamo”. In quella Quaresima mi sono posto diversi interrogativi e, soprattutto il Venerdì Santo, mi sono chiesto quale fosse il mio posto in questo grande mondo. Ho sentito come se dovessi stare lì, ai piedi di quella croce, ed è stato come sentirmi dire: “Questo è il tuo posto”. E ora, eccomi qua (sorride)».
La tua scelta è in controtendenza. Come mai i giovani sono sempre più lontani dalla Chiesa?
«Penso che oggi non si conosca più il Signore. Manca l’incontro di base, cioè un’esperienza che, pur non essendo perfetta, permetta di incontrare la Parola e i fratelli, che sono immagine della Parola. Un incontro che ti faccia capire che c’è un modo di vivere diverso rispetto alla “normalità”. Una volta che lo vedi, hai due opzioni: o fai finta di non vedere o non puoi più andartene. Ecco, secondo me, manca questo incontro, che all’apparenza sembra normale, con persone contente che hanno scelto di vivere in una maniera differente. Questo vale anche per chi frequenta la Chiesa. Ci si chiede: quello che fai per la parrocchia è centrale nella tua settimana o vai perché è una tradizione? Se andare in parrocchia è come andare all’allenamento di calcio settimanale, allora è riduttivo. È l’incontro domenicale con le persone, la Parola e l’Eucaristia che dovrebbe essere la cosa più importante della settimana. Da lì parte tutto».
Da quest’anno vivete stabilmente nel seminario di Genova.
«È un’esperienza molto bella, stiamo conoscendo un’altra realtà di Chiesa. Nonostante la vicinanza geografica, abbiamo scoperto un altro stile. Un giorno, quando torneremo qui, potrà esserci utile nel nostro modo di vivere il ministero. L’incontro con altre vocazioni, con altri ragazzi che hanno fatto la nostra stessa scelta perché hanno avuto lo stesso incontro, non può che arricchirci. È una bella occasione di conoscenza del nostro Dio che ci unisce».
A Genova fate anche servizio. Tu di che cosa ti occupi?
«Non abbiamo una parrocchia fissa per il servizio. Il sabato e la domenica il seminario segue il programma diocesano o svolge servizio nei vicariati, che sarebbero le unità pastorali della Diocesi di Alessandria, per far conoscere le nostre attività. Incontriamo gruppi di giovani, viviamo la Messa e portiamo la nostra testimonianza, per spiegare cosa facciamo. Ogni lunedì, inoltre, affianchiamo varie realtà che si occupano dei poveri. Io, per esempio, opero nel quartiere di Pra’ nella mensa delle suore di Madre Teresa di Calcutta, ma c’è anche chi fa servizio negli istituti di assistenza per malati, o in luoghi di carità. Cerchiamo di rispondere ai bisogni dei più poveri».
Quale sacerdote speri di essere?
«Un sacerdote che sappia ascoltare e stare con il Signore e con le persone. Che sappia essere vicino e possa dire quella parola o fare quel gesto “giusto”. Alla fine, organizzare grandi attività è riduttivo se poi non si può testimoniare che Dio c’è. Per cui spero di diventare un buon sacerdote. Solo buono, eh… la bravura verrà dopo (sorride)».