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La storia di Samira, giornalista iraniana

Da Teheran a Valenza

In occasione della ricorrenza di San Francesco di Sales, Patrono dei giornalisti, che si celebra domenica 24 gennaio, abbiamo deciso di raccontarvi una storia diversa, lontana, che parte dal Medio Oriente…
Da Teheran a Valenza ci sono 4.500 chilometri. Ed è proprio questo il viaggio che Samira K., 37enne iraniana, ha intrapreso per arrivare nella nostra provincia. Ma prima di salire sull’aereo, sette anni fa, direzione Italia, Samira ha svolto la professione di giornalista per “Iran News”, testata della capitale Teheran. Come tanti ragazzi iraniani, lei ha deciso di partire perché il futuro in quel Paese stava diventando “stretto”. Così la sua vita e la sua professione sono cambiate. Oggi, da cinque anni, Samira lavora nell’ambito della gioielleria, proprio a Valenza. Ma la sua passione, quella per la scrittura e il giornalismo, non l’ha mai tralasciata, nemmeno nel nostro Paese: «Quando avrò una totale padronanza linguistica vorrei dedicarmi alla scrittura dei libri, ciò che ho sempre desiderato fare» ci racconta. Ma si può essere liberi di scrivere e fare informazione in un Paese come l’Iran, così lontano e diverso dal nostro?

Samira, da dove nasce questa tua passione per il giornalismo?
«Mia mamma è insegnante di letteratura, quindi a casa, sin da bambina, invece delle bambole avevo tantissimi libri (sorride). Da lì è nata la mia passione per la scrittura: dagli 11 anni in poi ho iniziato a scrivere poesie con cui ho vinto anche dei premi scolastici. Sono andata avanti scrivendo, leggendo e guardando film e spettacoli teatrali. Così, piano piano, e molto indirettamente, mi avvicinavo al mondo del giornalismo».

Così hai iniziato subito a scrivere?
«In realtà la mia prima esperienza non ha nulla a che vedere con il mondo della comunicazione. Ho iniziato lavorando per un’azienda di petrolio, una risorsa naturale che per noi è sempre stata molto importante. Però non mi sentivo felice… E presto è arrivata la svolta: ho fatto un colloquio con “Iran News”, mi hanno presa, anche se i primi anni ho curato il reparto di pubblicità. Dopo quattro anni i miei colleghi hanno notato le mie precise critiche e analisi quando rileggevo il giornale, e mi hanno detto: “Perché non provi a scrivere anche tu?”. Così, dopo un consulto con il reparto editoriale del giornale, ho iniziato a scrivere sul serio. La nostra redazione era divisa in più uffici, ognuno copriva le varie regioni e smistava le notizie. E io sono arrivata, all’età di 25 anni, a essere caporedattrice di dieci ragazzi, tutti giovanissimi».

Nel tuo Paese come viene vista una donna che fa la giornalista?
«Essere colti ha molto valore: se sei laureata, hai un titolo di studio o un buon posto di lavoro vieni sempre rispettata. Non possiamo paragonarci alle donne arabe, che fino a due anni fa non potevano neanche guidare. In Iran c’è una veduta molto più ampia: possiamo lavorare, da sempre, ma tutto questo rimane una nostra scelta. Per questo abbiamo donne con un valore incredibile. Ci sono regole protettive nei nostri confronti: le donne vengono protette dal marito o dalla famiglia stessa. Forse quell’eccesso di protezione fa sì che alcune rimangano “sottomesse”. Ma anche questa è una scelta, non siamo obbligate a restare chiuse in casa. Sta a ognuna di noi studiare ed essere una donna libera».

E la religione?
«Sono nata musulmana, non ho scelto la mia religione. Nessuno la sceglie. Il 98% della popolazione è musulmana, ma abbiamo anche cristiani, ebrei, zoroastriani. Conviviamo insieme, senza nessun problema. Oggi non sono più praticante, in Italia non metto neanche il velo. Mentre appena torno in Iran lo indosso, perché vige l’obbligo per tutte le donne».

Poi hai deciso di cambiare vita.
«Ho sempre amato molto il mio lavoro. Ancora oggi i miei ex colleghi mi contattano per chiedermi un consiglio o un punto di vista. Mi sono licenziata perché ho deciso di cambiare vita. Il mio Paese è pieno risorse di naturali, una terra veramente ricca. Ma io sono sempre stata determinata, e per me costruire un futuro in Iran stava diventando complicato».

E così sei arrivata in Italia.
«Io sono venuta qui perché amo l’Italia: quando avevo cinque anni leggevo “Pinocchio” e desideravo vivere nel vostro Paese. Sono arrivata direttamente a Milano e ho iniziato a studiare marketing all’Università Bicocca. Ho lavorato tra Iran e Italia per i servizi turistici e commerciali, e dopo due anni mi sono trasferita a Valenza, entrando nel mondo dei gioielli».

In Iran non abbiamo mai smesso di fare informazione

Vorresti fare la giornalista anche in Italia?
«Sono qui da sette anni, e premetto che per me fare la giornalista vuol dire avere totale padronanza linguistica. Oggi, dopo questi anni, faccio ancora fatica a comunicare perfettamente. Ho sempre pensato che se un domani dovessi lavorare nel mondo della comunicazione, mi converrebbe dedicarmi alla scrittura dei libri, ciò che ho sempre desiderato fare. Ma non solo, ho altri interessi: a febbraio mi laureerò in Digital marketing, grazie a un master dell’Università Niccolò Cusano».

Come vedi il “nostro” giornalismo?
«La comunicazione in Italia sembra più libera, ma in realtà non lo è. E non solo in Italia, ma anche in altri Paesi… Da quando sono qui ho capito che ognuno è libero di scrivere tutto ciò che pensa, ma se è diverso o non segue certe ideologie viene tagliato fuori. Diventi la “pecora nera”, come dite voi (sorride). All’apparenza, dall’esterno, si vede un bel pacchetto di democrazia, ma in fondo arrivi agli stessi problemi che ci sono anche in Iran. Da noi magari si parla di un Paese sotto un’ipotetica dittatura, in cui non bisogna parlare, scrivere, pensare, ma intanto sono tantissimi anni che scriviamo, e non abbiamo mai smesso di farlo. Io, oggi, vedo ancora dei limiti in Italia».

Tornando all’Iran, come lo hai visto cambiato l’ultima volta che ci sei stata?
«Del mio Paese è cambiata la situazione economica: le sanzioni imposte da Trump e dall’America hanno tagliato le gambe a tutti. L’import e l’export stanno soffrendo particolarmente. Questo lo si vede anche in chi prima stava bene e adesso fa fatica ad andare avanti».

Nel 2019, dopo quarant’anni, alle donne iraniane è stato permesso di assistere a una partita di calcio dal vivo, allo stadio.
«Questo è un grande passo in avanti. Ma ricordo che per il derby di Teheran tra l’Esteghlal e il Persepolis c’erano ragazze che si travestivano da uomo pur di vedere la partita dal vivo. Io sono una tifosa del Persepolis e spesso mentre giocava il campionato ero a scuola. E ho l’immagine delle strade tutte colorate di rosso nel tragitto che percorrevo per tornare a casa: questo ovviamente se la mia squadra aveva vinto (ride)».

Perché molti ragazzi decidono di emigrare?
«Perché è un pregio andare all’estero. Sono esperienze che ti fanno acquisire qualità nuove: torni che sei più colto, sai un’altra lingua, hai visto il mondo. Molti vanno in America, in Inghilterra, pochi in Italia…».

Non siamo una meta ambita?
«Io credo che questo Paese potrebbe vivere soltanto grazie alla bellezza dei suoi patrimoni culturali. Ma sappiamo che ci sono delle difficoltà. Una di queste è il lavoro: purtroppo spesso ciò che hai studiato o sai fare non ha valore. Per questo i giovani, italiani e stranieri, in questo Paese fanno fatica a costruirsi un futuro».

Chi viene via dal tuo Paese non si sente davvero libero?
«Parliamo di mancanza di libertà, ma in realtà abbiamo tutto. Io sono nata dopo la rivoluzione iraniana del ’79 che ha cambiato molto il nostro Paese. Ma penso ai nostri genitori che, qualche anno prima, hanno vissuto i giorni più belli dell’Iran. Noi, nel nostro poco, abbiamo avuto anche tanto, le donne hanno gli stessi diritti degli uomini. Faccio un esempio: dentro le case comandiamo noi, gli uomini lavano i piatti e aiutano anche per le pulizie di casa (sorride). Non so perché all’estero venga fatto vedere l’Iran solo quando si parla di problemi o morti. Noi abbiamo soprattutto cose belle».

San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti

Francesco nacque l’anno 1567 nel castello di Sales, diocesi di Ginevra, da una famiglia aristocratica. Fece i suoi primi studi ad Annecy, e di qui fu mandato a Parigi. Studiò retorica, filosofia e teologia presso i Pp Gesuiti. Poi fu mandato dal padre a Padova per addottorarsi in legge: si laureò, ma in Francesco iniziava a maturare una forte vocazione al sacerdozio. Venne ordinato sacerdote nel 1593, e fin da subito il vescovo di Ginevra, monsignor Granier, lo delegò a combattere il Calvinismo, che dominava tutto il Chiablese (zona montana nel Nord della Savoia).

Diventa così missionario, mobilitando anima e corpo per la conversione dei calvinisti a Gesù. Si rese conto che le parole dal pulpito non bastavano, così iniziò a pubblicare fogli volanti, che egli stesso portava nelle case o affiggeva ai muri. Proprio per questo, oggi, viene celebrato come santo patrono dei giornalisti e di coloro che diffondono il cristianesimo attraverso i mezzi di comunicazione sociale. Secondo alcuni riuscì a convertire circa 30 mila persone (per altri i convertiti sono 72 mila). Nel 1599, Francesco ha 32 anni, e la sua missione lo ha fatto conoscere tutta la Chiesa: pare che anche a Roma, papa Clemente VIII, davanti a vescovi e cardinali, si fece raccontare l’avventura da Francesco stesso.

Morto il vescovo di Ginevra, nel 1602 Francesco fu eletto a succedergli. Di lui colpiva soprattutto la mitezza, la carità, ma anche la sua capacità di comunicare ed essere una guida spirituale per tutti. Nel 1610 fondò l’ordine delle Suore della Visitazione, coadiuvato dalla S. Madre di Chantal. Nonostante fosse ammalato, portò avanti la sua missione di conversione. La sera del 28 dicembre morì, a 55 anni, per un attacco di apoplessia.

Fu beatificato il 18 dicembre 1661, quattro anni dopo fu canonizzato da Papa Alessandro il 19 aprile 1665, e poi Papa Pio IX, il 19 luglio 1877, lo proclamò 18° Dottore della Chiesa. Il 26 gennaio 1923, Papa Pio XI con l’enciclica “Rerum Omnium Perturbationem”, lo proclamò “Patrono dei giornalisti”.

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