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Foto di Valerio Muscella e Michele Lapini

Bosnia: il passaggio degli invisibili

Intervista al fotografo Valerio Muscella

«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario». Per iniziare questa intervista facciamo nostre le parole di Pimo Levi nel suo celebre libro “Se questo è un uomo”. Comprendere tutto quello che accade da anni in Bosnia, al confine con la Croazia, è davvero impossibile. Migliaia e migliaia di migranti cercano di entrare nell’Unione europea attraverso la rotta balcanica. Nel 2020, secondo i dati di “Danish refugee council”, 21 mila persone sono state spedite indietro dal confine croato. Lo chiamano “The game”, il gioco. Si chiama così perché se riesci a passare il confine ed entrare nel territorio europeo, hai vinto. Se perdi, ci provi un’altra volta, poi un’altra e un’altra ancora. In mezzo ci sono freddo, gelo, fame, paura e violenza. Tanta violenza. In particolare quella della Polizia croata che, secondo testimonianze (e molte immagini), usa metodi estremamente violenti per rispedire i migranti che provano a entrare nel loro territorio. Calci, pugni, ma anche botte con manganelli avvolti nel filo spinato. E quando le loro mani non bastano, vengono sguinzagliati i cani. Ma questo è un problema che riguarda anche noi. Già, perché il confine con l’Italia, a Trieste, dista solo 4 ore di macchina. Soltanto 4 ore da quell’orrore. Dai dati del Viminale, tra il 1° gennaio e il 15 novembre 2020 il nostro Paese ha “riammesso” in Slovenia 1.240 persone, respinte a catena fino alla Bosnia (e proprio su questi atteggiamenti il tribunale di Roma ha aperto un’indagine). Ma di tutto questo i media parlano poco o nulla.

Chi ne parla, invece è Valerio Muscella, 35enne romano, fotografo freelance, che dal 1° all’11 gennaio c’è stato in Bosnia. Con l’amico e collega Michele Lapini, è partito in macchina fino al cantone di Una-Sana, poi a Bihać e Velika Kladuša, e infine al campo profughi di Lipa. Se comprendere è impossibile, Valerio, grazie alle sue immagini (che sono delle vere e proprie testimonianze), ci dimostra che conoscere è sempre più necessario. Soprattutto oggi. Soprattutto al confine tra Bosnia e Croazia.

Valerio, qual è stata la vostra impressione appena arrivati?
«Eravamo già stati a dicembre 2019, l’unica novità è il campo di Lipa, aperto ad aprile 2020 per l’emergenza Covid. Il contesto è simile all’anno precedente: la situazione non è acuta, ma cronica. Le cose stanno peggiorando…».

Chi sono i ragazzi al confine?
«Negli ultimi sette anni ho seguito questo tema, mi è capitato di lavorare su tutta questa rotta che tocca anche Turchia, Grecia, Macedonia e Serbia. Va letta per intera questa tratta, altrimenti perdiamo la visione d’insieme. Sono anni che i migranti percorrono queste strade, ma i flussi migratori cambiano in base a ciò che succede nei Paesi d’origine. In questo periodo è facile incontrare pakistani e afgani: il Pakistan porta avanti da anni due conflitti interni parecchio sanguinosi, stessa situazione in Afghanistan. Molti dei ragazzi che abbiamo incontrato hanno tra 16 e 35 anni, viaggiano da soli, chilometri su chilometri, a piedi. Praticamente tutti sono passati dalla Turchia, magari durante il loro percorso hanno finito i soldi, e quindi hanno dovuto lavorare, sfruttati e sottopagati, nelle fabbriche tessili a Istanbul. Proseguendo il viaggio dopo molto tempo».

(Caritas Ambrosiana)

Qual è la loro meta?
«I viaggi non sono brevi, durano mesi e mesi, in alcuni casi anni. Alcuni sognano di finire i loro studi, oppure vogliono raggiungere i parenti. Abbiamo incontrato alcuni ragazzi del Bangladesh che hanno già familiari e amici qui. La maggior parte passerà dall’Italia, e alcuni vorrebbero rimanere. Molti proseguiranno verso la Germania o la Francia».

Dove si accampano?
«Abbiamo tre situazioni principali. La prima riguarda fabbriche e case abbandonate, dove i migranti possono rimanere invisibili. Vivono dentro questi edifici pericolanti, con un livello igienico bassissimo: senz’acqua, elettricità e luce, con rifiuti e tanto freddo. Stanno anche in 12 stipati in una stanza minuscola, si riparano dal gelo mettendo dei teloni di plastica alle finestre. Si lavano al fiume, nel ghiaccio e sotto la neve, prendono l’acqua da dove capita… in attesa di aiuti».

Poi ci sono le “jungle”.
«Sì, sono campi informali che sorgono a ridosso delle città. Nella jungle di Velika Kladuša, abbiamo trovato 45 ragazzi del Bangladesh che si erano costruiti nel bosco delle tende con dei teloni di plastica e dei pali di legno. E stanno lì…».

(Dalla foto di Caritas Ambrosiana, il campo di Lipa dopo l’incendio)

La terza?
«È quella di Lipa, campo costruito a 30 chilometri da Bihać, su un altopiano. Una situazione che definirei post-apocalittica. Immaginatevi questi mega capannoni che il 23 dicembre hanno preso fuoco e dei quali sono rimasti solo gli scheletri. Alcuni di questi ancora reggono e sotto ci sono accampate delle persone che vivono nelle tende. E poi ci sono container e bagni appartenenti all’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr), che adesso sono spazi dove alcuni dormono».

Prima parlavi degli aiuti: chi c’è sul “campo”?
«La Croce Rossa bosniaca è a Lipa e distribuisce un pasto al giorno. Ma ci sono anche altre associazioni, come acli e ong. Abbiamo anche incontrato un’associazione turca d’ispirazione mussulmana che distribuisce pasti e coperte. Agli aiuti vengono spesso messi i bastoni tra le ruote. Non c’è organizzazione in questa catena umanitaria che non è forte, ma esiste».

Parliamo delle violenze dei poliziotti croati. Avete assistito a scene di questo tipo?
«Ci siamo appostati al confine, ma non abbiamo visto con i nostri occhi le violenze. È molto facile incontrare ragazzi che sono stati malmenati e torturati. Ci è proprio capitato di incontrare persone che tornavano dal confine croato poche ore dopo essere stati picchiati. Secondo “Danish refugee council”, il 70% dei migranti ha subito violenze, ma per me è un dato addirittura basso. Ho visto una percentuale altissima di persone ferite, anche in modo grave. Che io sappia ci sono stati dei decessi, ma nessuno sa queste cifre…».

E l’emergenza Covid?
«Ci sono due aspetti. Il primo: se la pandemia ha avuto un effetto in contesti di città industrializzate, paradossalmente le fasce più emarginate si sono isolate. L’altro aspetto è che non ci sono degli screening, anche se molti migranti avevano la mascherina. L’effetto della pandemia sui migranti dobbiamo leggerlo in modo diverso: immaginate quanto sia difficile muoversi per noi, figuratevi per una persona che, già nella normalità, ha meno libertà di movimento».

(Caritas Svizzera)

Che ruolo hanno il governo e la popolazione bosniaca?
«La Bosnia viene da un periodo ingarbugliato. È divisa in cantoni, ha delle forti suddivisioni interne. Loro stessi hanno vissuto per anni dovendo scappare come rifugiati. C’è stato un primo momento di tolleranza, perché la popolazione si è accorta che i migranti non vogliono rimanere in Bosnia. Adesso la situazione sta degenerando, e i cittadini iniziano a protestare. Per esempio, in un supermercato a Velika Kladuša, c’era scritto: “Migrants are forbidden to enter”, ovvero “vietato entrare ai migranti”. Le responsabilità riguardano tutti dall’Europa all’Oim, fino al governo bosniaco e alle amministrazioni locali».

In questo c’entriamo anche noi: dal confine italo-sloveno vengono rispediti centinaia di migranti. E il tribunale di Roma ha aperto una “battaglia” legale verso il ministero dell’Interno, ritenendo illegittimi questi respingimenti.
«L’Italia non è nuova alla repressione dei diritti alle frontiere. Dal 2014 al 2019 sono morte 15 mila persone nel Mediterraneo (dati “Amnesty International”, ndr). È illegale, però, non accettare una richiesta d’asilo e riammettere i migranti in Slovenia senza alcun provvedimento amministrativo. E questo viola in pieno anche il loro diritto a un ricorso. C’è una sentenza storica del tribunale di Roma, ma non sappiamo quale tipo di effetti può avere. Vorremmo vivere in uno Stato di diritto. Se l’Italia si permette di mettere sotto il tappeto la “polvere”, schiacciando i diritti delle persone, è un problema che riguarda tutti. Non solo i migranti afgani».

Alcuni hanno paragonato la fila di Auschwitz a quella di Lipa. Cosa ne pensi?
«Vado controcorrente e dico che a me non piace questo parallelismo. Non possiamo associare Bosnia 2021 ad Auschwitz 1945. Innanzitutto per rispetto alle persone, deportati e migranti. E poi perché questo paragone non tiene conto delle dinamiche storiche e geografiche, completamente diverse, che hanno portato a questi tipi di violenza. Allora mi chiedo: se appena vediamo una fila sotto la neve pensiamo ai campi di concentramento, dovremmo pensarlo anche quando vediamo la gente fuori dalla Caritas di Milano o di Roma?».

Perché i media non parlano (o quasi) di questa notizia?
«Il fatto che i media non ne parlino non mi sembra strano. Per lavoro ho a che fare con chi non ha voce, il mio ruolo è quello di fare da megafono. Io sono un semplice testimone, ma una redazione, un giornale o una televisione fa i conti con la propria linea editoriale. Laddove non arrivano loro, noi freelance riusciamo ad accendere un faro, una luce, all’interno di questa macchina che macina continuamente informazioni. Lo so, è una visione un po’ “donchisciottesca” (sorride)».

(Caritas Ambrosiana)

Hai un volto che porti nel cuore dal confine?
«In un bosco abbiamo visto in lontananza questo sacco a pelo “pieno”, senza nulla attorno. Ci siamo avvicinati, dentro c’era un ragazzo di 16 anni, pakistano, che parla un inglese perfetto. Vive lì perché da un centro d’accoglienza lo volevano portare a Sarajevo, ma lui vuole comunque continuare il viaggio. Vive da solo in questo bosco e si procura da vivere come può. Il suo sogno è continuare gli studi per diventare un esperto di computer. Mi sono emozionato quando ci ha detto: “Nel computer c’è un mondo. E se conosci il computer, conosci il mondo”».

Ti senti cambiato?
«Cambiato non so… Mi rimangono tutti quei volti, quegli occhi. Queste esperienze arricchiscono il bagaglio personale e ti permettono di dare un senso, ancora più complesso e organizzato, a quello che fai. Vorrei ringraziare tutte queste persone, perché mi offrono un punto di vista sempre più aperto sul mondo. Purtroppo però io sono tornato qua, e quel ragazzino di 16 anni, pakistano, che parlava un inglese perfetto, è ancora nel bosco…».

Alessandro Venticinque

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