La storia di Michele Ruffino
Ma Michele è un giovane brillante che ha tanti sogni, uno su tutti quello di diventare pasticciere: si è iscritto all’alberghiero e sta per iniziare uno stage. «Faceva un Pan di Spagna senza lievito che diventava alto una spanna» dice suo papà Aldo. Sono già passati tre anni ma la mamma di Michele, Maria Catrambone, al telefono piange. Come se quel maledetto giorno fosse ieri. Piange, Maria, ma non si arrende. Dopo pochi mesi da quel 23 febbraio fonda l’associazione “Miky Boys”, per portare ai giovani questa storia e aiutare coloro che si trovano nella stessa situazione.
La famiglia è sempre stata accanto a Michele, con cura e amore. Ma non è bastato. Il giovane di Rivoli ha gettato la spugna perché stufo e stanco di quel mondo che non riusciva e non voleva capirlo. Si butta nel vuoto da solo, ma porta con sé tutti noi. Tutti coloro che minimizzano parlando di “ragazzate”. Tutti coloro che sono conniventi con quella meschina e ottusa mentalità, per cui nel “branco” vince chi è furbo o urla più forte. Tutti coloro che di fronte a un atto di bullismo si voltano dall’altra parte, facendo finta di niente. Ecco, con quel suo gesto Michele è diventato non solo vittima, ma anche martire. Senza saperlo, rappresenta una speranza per tutti i Michele di oggi (e sono tanti, tantissimi) che non hanno voce. Quei Michele che soffrono, tutti i giorni, in silenzio. Stufi e stanchi di quel mondo che non riesce (e non vuole) capirli.
Maria, cosa ci puoi raccontare di tuo figlio?
«Michele era un ragazzo di 17 anni, come tanti… Aveva un sacco di sogni, voleva diventare “youtuber”, amava le foto e viaggiare. Ma il suo grande desiderio era fare il pasticciere. Era super intelligente, si faceva volere bene. Da piccolo, a causa di una vaccinazione scaduta, si è ammalato. Ma nonostante tutto è stato un guerriero, ha provato sempre a rialzarsi, lottando per la sua vita».
Quando comincia a essere preso in giro?
«Alle Elementari erano tutti amorevoli con lui, nonostante avesse difficoltà a muoversi a causa di una camminata poco stabile. La sua malattia l’abbiamo sempre vissuta serenamente, non nascondevamo niente. Poi dalle Medie le cose sono peggiorate, iniziano a prenderlo in giro. Lo chiamano “handicappato”… Gli dicevo: “Fatti scivolare tutto, passerà crescendo”. Denunciavo queste scene alla preside e agli insegnanti: loro prendevano atto, e basta».
Poi Michele va alle Superiori.
«Si iscrive all’Alberghiero, dove andava anche sua sorella. E proprio grazie a lei, nei primi due anni, era protetto. Poi la cosa precipita. A scuola, appena passa il cancello, sta male. Le prese in giro vanno avanti, tra quegli sguardi e quelle frasi. “Sta arrivando lo storpio”, oppure: “Non doveva nascere”, “anoressico”, “handicappato”. Arrivano anche a minacciarlo e a sputargli addosso. Questo succedeva tutti i giorni, continuamente. Noi abbiamo sempre denunciato, ma la preside dell’istituto non l’abbiamo mai vista in quattro anni. “Sì, non si preoccupi, non c’è problema” diceva il vicepreside. “Vigiliamo noi” promettevano gli insegnanti. Mi sono sempre affidata a loro, ma mi sbagliavo…».
Ne parlava con voi di questa situazione?
«Ma certo, Michele ci raccontava tutto. Chiedevo sempre a lui prima di intervenire e rivolgermi ai prof. Mi diceva: “Vieni, e non farti vedere”. Fino a pochi mesi dalla sua morte, in presidenza ho portato i compagni di classe che lo insultavano, erano soprattutto ragazze. Ho portato i genitori dei bulli: loro dicevano che era Michele a creare i problemi. Il vicepreside prendeva atto, ma non dava mai punizioni. Mio figlio passava una settimana tranquilla, e poi quelli tornavano alla carica. Guardate, se l’avessero menato sarebbe stato meglio, almeno la cosa era evidente. A volte è meglio uno schiaffo, perché le parole lo colpivano psicologicamente. Per questo eravamo seguiti da una neuropsichiatra. A novembre 2017 ho visto anche dei tagli sulle sue braccia, ma lei mi disse di non preoccuparmi: “Tutti a quell’età hanno questi problemi, passerà”. Ma non è stato così».
Cosa desiderava Michele?
«Cercava attenzioni, cercava l’amicizia. Come tutti. Alla sera leggevo i messaggi sul suo cellulare. Nel gruppo dell’oratorio di Rivoli scriveva: “Posso venire con voi?”. E alcuni: “No, non usciamo” o “siamo già organizzati in gruppo”. L’unico amico era suo papà: facevano le gite, andavano a cena fuori o al cinema. Un ragazzo di quell’età voleva solo la normalità. Ma in questa storia di normalità non ce n’è stata».
Arriviamo a quel 23 febbraio 2018.
«Michele va a scuola tranquillo, uscendo ha un bel sorriso. Sale in macchina e ci dice: “Ho preso 7 di Francese”. Siamo arrivati a casa, aveva appena comprato dei biglietti per un concerto del 1° marzo. E poi si stava preparando per lo stage con la scuola: aveva acquistato la divisa e le scarpe nuove. Era serenissimo. Quando succedeva qualcosa a scuola, bastava uno sguardo e io capivo tutto».
Poi che cosa succede?
«Al pomeriggio nevicava un po’, e alle 15.30 Michele va a farsi un giro. Ricordo anche di avergli dato cinque euro per fare merenda. Alle 15.45 l’ho chiamato e lui mi ha detto che era al Castello di Rivoli. Eravamo usciti per delle commissioni e lo volevamo passare a prendere, ma lui insisteva di voler tornare da solo. Alle 16.05 le ultime sue frasi: “Tranquilla, mamma, arrivo presto”. Da quel momento non l’ho più sentito (prende tempo, e fiato). Non avendo sue notizie ci siamo spaventati. Io e mio marito abbiamo aspettato due ore in piazza. Sapevo che usciva con una ragazzina, pensavamo fosse con lei. Riusciamo a chiamarla, ma anche lei ci dice che lo stava aspettando preoccupata. Dopo arriva la chiamata dei carabinieri, ci dicono di andare in caserma. Ho pensato subito a un incidente. Arriviamo in caserma e davanti a noi arriva il maresciallo con gli occhi lucidi, mi dice: “Dovete andare ad Alpignano”. “Perché là?” chiedo. “Signora, non possiamo dirvi niente, andate ad Alpignano” insistono, molto scossi. Mio marito si accascia per un istante e poi chiede: “Non ditemi che si è buttato dal ponte?”. Il capitano scoppia in lacrime e annuisce… (si commuove)».
Ci fermiamo un attimo?
«Scusami… sono passati tre anni, ma è come se fosse ieri. Michele non c’è più da quel 23 febbraio (piange). Siamo sopravvivendo, è disumano passare dei giorni così. Oggi stiamo elaborando questo lutto da soli. Lui è il nostro angelo e ci aiuta ad andare avanti. Ditemi che senso ha mettere un figlio al mondo e vederlo andare via, per colpa di una società malata? Non ha avuto aiuto da nessuno: come scriveva nelle sue lettere, “sopravvivo, ma questo non è vivere”. Anche per noi è così…».
È stata fatta giustizia?
«Purtroppo no. Mi sono battuta perché questo non è suicidio, ma istigazione al suicidio. Sono tre anni che aspettiamo giustizia dalla magistratura, ma non si muove niente. Intanto, il pm ha chiuso le indagini senza nemmeno dircelo. Nessuno ha interrogato i ragazzi, la preside o i professori. Nessuno ha mai chiesto i tabulati telefonici delle persone di cui ho fatto i nomi. E nessuno ha mai visto le telecamere sul ponte. Io conosco tutti i bulli, uno per uno. Non voglio vendetta, ma giustizia. Il pm ha detto che sono stata una mamma molto presente, però mio figlio non ce l’ho più».
Gli sfregi continuano anche dopo la morte, vero?
«Anche il giorno del funerale hanno avuto il coraggio di prendere in giro Michele. Un ragazzo ha detto: “Questo non è Michele, lui era storpio. È meglio in foto che da vivo”. Hanno poi continuato sui social, ma la polizia postale non ha mai fatto nulla. Il pm ha commentato la frase di quel ragazzo dicendo che quella era “la nuda e cruda realtà, perché era deforme”. A parte che Michele non era deforme, era bellissimo. Ma anche fosse, chi si può permettere di dire certe cose? I ragazzi disabili non sono numeri, hanno nomi e cognomi, devono avere giustizia, come tutti».
Questa storia poteva andare diversamente? Qualcuno sapeva delle intenzioni di suo figlio
«Michele quel giorno aveva consegnato una lettera a una ragazza che avrebbe dovuto recapitarla all’unico amico che gli era stato accanto. In quella lettera annunciava che si sarebbe ucciso… Quindi poteva essere salvato, ma i suoi compagni hanno fatto finta di non aver letto niente. Sapevano tutti, ma nessuno ha fatto nulla. Un’omertà che ha portato via mio figlio».
In questa storia, però, non c’entra solo la scuola.
«No, anche all’oratorio veniva preso in giro. Ricordo che a un campo animatori di una settimana è stato lasciato solo, e dopo pochi giorni mi ha chiamato per ritornare a casa. Ho chiesto e mi dicevano: “È tutto a posto”. Indifferenza totale dai ragazzi e dagli adulti. Molti mi chiedono se ho perdonato i bulli di Michele. Ma dopo tre anni cosa devo dire? Se avete una coscienza, visto che la giustizia terrena non funziona, almeno quella divina vi dirà chi siete».
Oggi come andate avanti?
«Michele manca, ma Michele c’è. Nel giugno 2018 abbiamo fondato l’associazione “Miky Boys”, con cui cerchiamo di aiutare chi subisce bullismo, ma soprattutto chi commette questi atti. Ci impegniamo in convegni, laboratori e tanti progetti nelle scuole. In questi anni ho conosciuto anche la dottoressa Giuseppina Filieri della fondazione Asso.Safe, con cui c’è una stretta collaborazione. Proprio con lei, il 6 marzo, pandemia permettendo, inaugureremo il Centro europeo contro il bullismo a Padova. Doveva nascere a Rivoli, ma anche in questa occasione le istituzioni si sono voltate dall’altra parte».
Il 7 febbraio è la Giornata nazionale contro bullismo e cyberbullismo. Come l’avete celebrata?
«Ho incontrato tanti ragazzi attraverso alcune videochiamate con le scuole. Non bisogna ricordare solo la Giornata, ma sempre, ogni giorno, su tutti i fronti. Vanno educati soprattutto i genitori. Perché il rispetto, le regole, l’educazione arrivano prima dalla famiglia. Purtroppo abbiamo trovato una scuola non sempre all’altezza, anche se sto conoscendo insegnanti e presidi che rivolgono tantissima attenzione ai ragazzi. Mettendo sempre prima la persona, non i voti o la didattica, per far uscire il meglio da ognuno. Michele vive, ancora oggi, in tutti quei ragazzi o persone adulte che da anni vengono presi in giro. Questo angelo, come lo chiamo io, ha fatto smuovere tante coscienze. Tanti ragazzi mi hanno detto: “Sono un bullo, ma ti prometto che da oggi smetto”».
La pandemia ha peggiorato questa situazione?
«Ai ragazzi manca il contatto, chiuderli davanti a un computer è un male. Molti lasciano la scuola, alcuni tentano il suicidio o cadono in depressione. Altri escono e poi fanno dei danni. Perché nelle famiglie ci sono problemi. Cerchiamo per primi noi adulti di costruire un futuro migliore per i nostri ragazzi, non parliamone solo nella Giornata o per un fatto di cronaca. Ma tutti i giorni».
Sei arrabbiata con Dio?
«Non sono arrabbiata, ma a Dio chiedo: “Me l’hai tolto, ma almeno fammelo vedere in sogno”. È un anno che non lo vedo… (piange). Sono stata sempre credente e ho trasmesso questa fede ai miei figli. Loro hanno sempre frequentato l’oratorio, aiutavano quando c’erano i pranzi per gli anziani e facevano gli animatori ai centri estivi. Ho sempre creduto, mi sono sempre affidata. Anche adesso, ogni 23 del mese faccio dire una Messa in suo ricordo. Ma c’è un altro fatto che vorrei raccontarvi…».
Prego.
«In terza elementare la maestra di religione ha fatto una lezione sulla Madonna di Lourdes. Michele, che a quell’epoca non camminava, mi diceva sempre: “Voglio andare a Lourdes”. Il momento economico non era dei migliori, però siamo riusciti a metterci in contatto con l’associazione “Santa Maria” di Torino, e loro ci hanno offerto il viaggio. Sono convinta che la Madonna lo volesse lì. Michele tutti i giorni sotto quella grotta pregava: “Non voglio guarire del tutto, basta che mi fai camminare”. Torniamo a casa, dopo Lourdes, e lo vedo correre. Non aveva mai corso, ci siamo spaventati. Lui ci dice: “Talmente mi sento leggero che potrei anche volare”. Eravamo seguiti dall’ospedale “Santa Maria” di Reggio Emilia: cure specifiche non ce n’erano, Michele era una cavia. La settimana dopo ci chiama il dottore per alcune visite di routine e iniziamo a seguire una nuova terapia sperimentale. Dopo poco tempo, Michele riesce a camminare e non cade più. L’anno dopo, a maggio, torniamo a Lourdes per raccontare la sua storia».
Se tu oggi potessi vederlo, anche solo per poco, cosa faresti?
«Mi manca tutto di lui… Se lo avessi davanti lo abbraccerei e non lo lascerei più (sospira)».
C’è un desiderio che porti nel cuore?
«Michele aveva un altro grande sogno: incontrare papa Francesco. L’anno della Cresima, con la sua parrocchia doveva andare a Roma, ma in quel periodo stava male e non ce l’ha fatta. Adesso che sto portando avanti tutti i suoi sogni, vorrei incontrare il Papa. Ammetto di aver perso la fiducia nei preti… Dopo la sua morte ho chiesto: “Non abbandonateci”. Solo un sacerdote ci è stato vicino, gli altri ci hanno lasciato da soli, senza un aiuto. Per questo vorrei incontrare il Papa: per raccontargli la storia di Michele e quello che continua a fare. Anche dopo quel maledetto 23 febbraio».
Alessandro Venticinque
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