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Starlink, Bitcoin e carrette del mare

“Cronache dalla galassia” di Enrico Zappa

Sono ormai visibili a occhio nudo i satelliti Starlink, lanciati nello spazio ad un’orbita di circa 600 km; la costellazione artificiale, che a progetto ultimato conterà migliaia di micro satelliti, consentirà una ancor più capillare diffusione di internet, raggiungendo luoghi oggi difficilmente accessibili dalla connessione. Il progetto è della staunitense SPACE X, azienda costituita dal genio proteiforme di Elon Musk, già ideatore di Pay Pal.

Lo stesso Musk, nei giorni scorsi, ha contribuito con alcune dichiarazioni al crollo delle quotazioni di Bitcoin, se non la regina, la più conosciuta delle crypto currencies, o più domesticamente cripto valute. Il prefisso cripto è dovuto al codice informatico che dovrebbe attribuire la proprietà di queste monete elettroniche in maniera univoca e non falsificabile. Bitcoin è stata introdotta sul mercato nel 2009 e a 12 anni di distanza, nonostante le quotazioni altissime raggiunte, il suo utilizzo è ancora estremamente limitato.

Il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, in un recente articolo sul NYT, ha ironizzato con leggerezza sulle ragioni che hanno portato a questi valori siderali, richiamando esempi poco lusinghieri come lo schema Ponzi oppure l’incomprensibile natura di bene rifugio dell’oro. Paul Krugman, economista lontano dal liberismo, ritiene che la cara vecchia moneta cartacea, che nel frattempo ha abbandonato il Gold Standard, svolgerà il suo ruolo ancora per lungo tempo.

Sta invece raggiungendo altezze orbitali il numero di navi che utilizzano bandiere di comodo, ovvero di stati cui non appartiene l’armatore, ma che consentono di aggirare al momento della demolizione le sempre più stringenti norme di sicurezza sul lavoro e di tutela ambientale. Armatori europei, statunitensi, giapponesi o sud coreani, con questo stratagemma, portano le loro navi a demolire in paesi come Pakistan, Bangladesh o India. Tra il 2002 e il 2019, la proporzione di navi di proprietà di armatori UE registrata in paesi a basso reddito è cresciuta dal 46% al 96%. Lo studio di Nature che ha analizzato il problema non cita la Cina che, forse almeno in questo, fa tutto in casa.

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