Intervista a Sabato Angieri, giornalista inviato a Odessa, nel sud dell’Ucraina
Odessa è una città bellissima, affacciata sul Mar Nero, nel sud dell’Ucraina. Era uno dei primi obiettivi dei russi, vista la sua posizione strategica sul mare, ma per ora ha subito pochi bombardamenti. A differenza di altre città ucraine, in cui il conflitto passando ha lasciato morti e distruzione. Il volto di Odessa è comunque cambiato, il sole che la illuminava sembra essere sparito. Si vedono solo fili spinati, sacchi di sabbia, blocchi di cemento. E poi tanti militari e civili armati, pronti a difendere la propria città. In cui, ironia della sorte, la lingua più parlata è proprio il russo .
Sabato, che clima c’è a Odessa?
«C’è molta attesa… Il centro è militarizzato, le strade sono chiuse. A ogni angolo ci si imbatte in fili spinati, sacchi di sabbia, blocchi di cemento. I militari controllano i documenti di tutti, e non fanno passare nessuno. Io ho l’accredito della stampa, ma nelle ultime 48 ore la situazione si è fatta più difficile. La zona più controllata della città è quella sul porto, dalla fine della scalinata Potëmkin alla piazza della Cattedrale, perché i russi potrebbero entrare da lì. La città non è ancora tagliata fuori dai rifornimenti, le poche persone che sono in giro hanno in mano le buste della spesa. A differenza della capitale e altre città, non posso dire che i generi alimentari scarseggino».
Sono tante le persone rimaste in città?
«Qui la situazione è differente da Kiev o dall’est. Odessa doveva essere uno dei primi obiettivi dei russi, e probabilmente lo è ancora, ha subito colpi di artiglieria solo negli ultimi giorni. Quindi non c’è stato un vero e proprio esodo, quello che abbiamo visto in altre città. Geograficamente è più vicina alla Moldavia, ed eventualmente per una fuga, i civili si riverserebbero su quel confine. Anche se lì vicino c’è la della Transnistria, dove presumibilmente si trovano truppe filorusse. Come dicevo, la situazione in centro è impressionante, ci sono solo militari e poche persone. Spostandosi alla zona sul mare, c’è più gente in giro, anche se molti sono battaglioni territoriali o volontari. Un altro punto da tenere in considerazione è che Odessa, essendo una città antica, non ha sicurezza rispetto ai bombardamenti. Certo, anche Kiev è una città antica, ma ha palazzi moderni e bunker più resistenti. Qui molti rifugi sottoterra sono semplici cantine e non hanno vie di uscita. Quando ci sono degli allarmi, molti non scendono sottoterra, ma cercano riparo all’aperto».
C’è un controsenso di fondo in questa guerra. Per esempio, Odessa è in Ucraina, ma la lingua più parlata è il russo.
«Odessa è una delle zone d’Ucraina ancora molto legata all’eredità russa. Sia dal punto di vista culturale, sia da quello umano, penso ai tanti rapporti di parentela. Mi è capitato spesso di sentire dagli ucraini: “Odio il governo russo, non i russi”. Però più la guerra continua, più i bombardamenti si intensificano, più questa distinzione viene meno. Vedendo case distrutte, morti, miseria, anche questo ragionamento ne risente. Altre persone mi hanno detto che questa guerra sta avendo come risultato immediato di allontanare le parti dell’Ucraina legate la mondo russo. Se, queste parti, prima potevano nutrire forti dubbi sulle azioni politiche di Kiev, su determinati provvedimenti presi dal 2014, adesso in molti non si fidano del governo russo. Questo conflitto sta, inevitabilmente, influendo sui rapporti umani e culturali tra Ucraina e Russia».
Nelle ultime ore il Cremlino sta stringendo su diverse città. Si va verso la conquista del territorio anche a Odessa?
«A Odessa ci si aspetta l’attacco, così come in altre città ucraine, ma non sarà così immediata la conquista. Anzi, la percezione comune è che l’impegno fornito da civili e forze armate ucraine possa evitare questa occupazione. Nel caso in cui i russi dovessero entrare nelle città più grandi e organizzate, gli ucraini sono pronti a dare battaglia strada per strada. L’equazione attacco-conquista non è così scontata. Kiev, per esempio potrebbe essere teatro di una battaglia sanguinosissima. L’appello, condiviso da tanti, è quello di catalizzare gli sforzi verso una soluzione diplomatica, il prima possibile. Non perché l’Ucraina debba arrendersi, cedendo il proprio territorio, ma perché si deve evitare una carneficina».
Però l’Occidente ha rifornito l’Ucraina di armi. E continuerà a farlo…
«Non sono qui come analista politico, ma cerco di documentare quello che sta accadendo. Mi arrivano molte voci e notizie, dall’Italia e da altri Paesi occidentali, su queste misure. Dico solo che prolungare e inasprire il conflitto non è la soluzione».
Pochi giorni fa, da Irpin (nella regione di Kiev), è arrivata la notizia della morte di Brent Renaud, 51enne giornalista americano. In guerra ci siete anche voi?
«Non mi sento un obiettivo al momento. Ovvio, la notizia di domenica non mi lascia indifferente. Sia dal punto di vista umano, sia dal punto di vista professionale. Questa persona era qui per fare il proprio lavoro, voleva documentare quanto sta accadendo, e lo voleva fare al meglio. Al momento, i giornalisti non sono un bersaglio».
Dopo il Covid, anche in guerra sono tornati alla ribalta i “negazionisti”. È caccia alla fake news, a filmati o immagini anacronistiche, tutti pronti a gridare al complotto. Cosa diresti a un “negazionista”?
«Quello che, io e tanti colleghi, stiamo vedendo è vero. E di questo non c’è neanche da parlarne. C’è una guerra in corso, sono stati attaccati degli edifici residenziali, sono stati attaccati civili, e tra loro donne e bambini. Negare tutto questo vuol dire non voler vedere. Altra questione importante è la diffusione delle notizie…».
Ovvero?
«Essendo un conflitto, entrambe i governi portano acqua al proprio mulino. Parallelamente alla guerra militare c’è quella mediatica. Vengono date moltissime informazioni. Per esempio, di 50 notizie che possono arrivarmi, io forse a fine giornata ne do cinque. Prima di dare un’ultima ora, la devo verificare, sempre. Perché quella notizia deve aiutare chi sta a casa a modellare la visione del conflitto. Se, invece, la tendenza è pubblicare qualsiasi cosa che viene diffusa da fonti ucraine o russe, si crea confusione. Se da un lato posso capire la confusione, dall’altro non capisco il negazionismo di un evento che è in atto. Altrimenti facciamo la fine di Lavrov (ministro degli Affari Esteri della Russia, ndr) che nel discorso ad Antalya ha negato l’aggressione all’Ucraina. Evitiamo la follia del non voler vedere. Poi possiamo argomentare, aggiungere elementi di ragionamento, cenni storici, fatti successi negli ultimi anni, dalla disgregazione dell’Unione Sovietica alle tensioni del 2014, fino al conflitto di oggi. Questo è legittimo, non si può censurare, ma vanno distinti i momenti. Possiamo argomentare, ma non cancellare quello che è stato e che accade oggi».
Hai un aneddoto da raccontarci?
«Ce ne sono diversi, e sono tutti tristi. Ero in un hotel a Kiev, dopo i primi giorni di guerra, e si stava svuotando. Il manager, sulle scale, mentre scappava ci ha detto: “Me ne sto andando, l’albergo è vostro”. Tre quarti del personale dell’hotel se n’era andato. I pochi rimasti si prendevano cura di noi giornalisti, di alcune signore anziane e di diversi ragazzi rifugiati nel garage nell’hotel, per ripararci dagli attacchi aerei. Il personale ha cercato il più possibile di aiutarci, in particolare il cuoco che, nonostante il cibo scarseggiasse, faceva di tutto per cucinarci qualcosa di caldo. Un sera lo vedo uscire dalla cucina, mi avvicino e gli dico: “Ti ringrazio per quello che stai facendo”. Lui non capiva l’inglese, mi guardava interdetto. Allora si avvicina una signora e gli spiega la mia frase. Subito dopo ho allungato la mano, per stringergliela, e lui è diventato tutto rosso, imbarazzandosi. Questa sua timidezza, nel momento in cui era lui a fare qualcosa per tutti, mi ha commosso. Un momento davvero forte. Dopo che gli ho dato la mano, si è messo a piangere, e se n’è andato…».
Quali volti porterai nel cuore?
«Quando siamo partiti da Kiev, per 24 ore siamo passati dentro la Moldavia per andare a Leopoli. La sera ci siamo fermati in una pensione, al confine. Lì, abbiamo incontrato una madre e una figlia che scappavano da sud di Leopoli. Ci siamo fatti raccontare la loro storia: avevano poche cose dietro, sono scappate di fretta. Il mattino dopo abbiamo preso il caffè insieme. Arrivato il momento di partire, tutte e due ci hanno abbracciato, raccomandandoci: “Non andate lì, c’è la guerra”. Io gli ho spiegato che questo era il nostro lavoro, e che saremmo stati attenti. Poi ci hanno salutato, piangendo, come fossero una madre e una sorella. Un’umanità grandissima, che ancora mi commuove».
(Questa intervista è stata realizzata lunedì 14 marzo)
AGGIORNAMENTO
Nella notte tra martedì e mercoledì, intorno alla mezzanotte, le navi da guerra russe hanno sparato missili e artiglieria sulla costa a sud di Odessa. Ci siamo messi subito in contatto con Sabato Angieri, per farci raccontare le ultime notizie.
«Al momento, le notizie ufficiali ucraine parlano di due feriti. Sappiamo che si sono spostate 14 navi russe dalla Crimea a Odessa, più una nave da sbarco lunga 120 metri. Questo è quello che posso dire di confermato. Per ora, non sono stati attivati corridoi umanitari. La situazione è in peggioramento, ma non si sa fino a che punto».
Alessandro Venticinque
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