Storia di fede e Resistenza
Dopo il diploma di maestro stava svolgendo gli studi universitari; chiamato al servizio militare, dopo l’8 settembre scelse di non aderire alla Repubblica Sociale di Mussolini e aderì al movimento partigiano nella formazione di “Giustizia e libertà”, guidata da Luciano Scassi, operativa tra l’Acquese e l’Ovadese, diventando un punto di riferimento per i più giovani e assumendosi la responsabilità del comando dopo la cattura e l’esecuzione del suo comandante.
Trasferitosi nella zona di Mombaruzzo, in aiuto della Repubblica libera di Nizza, nel momento più difficile della prova seppe sacrificarsi per i suoi giovani compagni. Fu ucciso il 20 ottobre 1944, nella via di Mombaruzzo che oggi porta il suo nome. A Piero Boidi, simbolo della partecipazione alla Resistenza dei giovani di Azione Cattolica della nostra zona, è stata assegnata la Medaglia d’argento al Valor Militare.
Un giovane generoso e appassionato
Pietro Boidi è un giovane di Cantalupo, nella piana alessandrina. Un paese rurale ma con una presenza manifatturiera rilevante, che risente del clima culturale, religioso e politico della vicina Alessandria. Nato nel marzo 1923, dal padre Cristoforo e da Francesca Barberis, cresciuto in piena epoca fascista, Pietro è un giovane impegnato in parrocchia, aderisce all’Azione Cattolica, segue l’educazione dei ragazzi più giovani, inserito pienamente nel clima del regime, che ha una particolare “attenzione” verso le organizzazioni cattoliche, considerate concorrenti a quelle fasciste e che negli Anni 30 cerca di limitare e condizionare. Sul piano locale è forte la pressione a combinare le due appartenenze. E non manca chi pensa di poter “cristianizzare” il fascismo. “Pur avendo risentito, come tutti i giovani del periodo, dell’educazione del Regime, il suo orizzonte intellettuale e morale fu maturato dalla sentita appartenenza all’Azione Cattolica. Quindi il suo più intimo patrimonio ideale, intorno ai vent’anni, lo staccò dalle vacue parole d’ordine del Fascismo e, dalla fine del 1943, lo condusse ad una opposizione concreta” (In M. Rivera, Testimonianza in “Cantalupo informa” n.10/2016). Il movimento giovanile dell’AC nella diocesi di Alessandria è stato uno dei più significativi fin dall’inizio del ’900 e ha visto un particolare impulso ad opera di Carlo Torriani, presidente alessandrino e poi responsabile regionale della Gioventù di AC negli anni del primo conflitto mondiale. Torriani diviene poi protagonista della vita politica locale come segretario del Partito Popolare e direttore del periodico diocesano “La Libertà”. La sua posizione chiaramente antifascista lo pone ai margini della vita politica dopo l’avvento della dittatura. Il suo impegno nel mondo cattolico però continua, prima nella vita associativa e poi negli Anni 30 con la scelta di farsi sacerdote. Appoggia da subito il movimento resistenziale, come gran parte dei responsabili dell’AC alessandrina, che – anche durante la guerra – mantengono la rete di contatti e attività formative, sia in diocesi come Bellato, che con i dirigenti di altre diocesi, come i casalesi Brusasca e Martino, gli acquesi Sburlati, Filipetti e Merlo, i tortonesi Raimondi e Bianchi.
La scelta
È questo l’ambiente che il giovane Boidi frequenta, sia negli anni degli studi magistrali, che svolge in Alessandria, sia con l’iscrizione alla facoltà di Magistero a Torino, dove segue le lezioni, viaggiando in treno, finché la situazione militare lo permette. Stimato in paese, è un giovane convinto dei propri ideali e deciso a dare il suo contributo. All’8 settembre ’43 risulta arruolato nell’esercito, reparto granatieri, con il grado di caporale maggiore. E giunge il momento di scelte difficili e rischiose. Decide di non aderire alla Repubblica di Salò e comincia a collaborare al giornale clandestino “Il Risveglio” elaborato tra Cantalupo e Castellazzo con Giovanni Novelli e Francesco Poggio, a partire dal dicembre 1943. Le prime edizioni del giornale sono stampate proprio a Cantalupo, con la collaborazione del farmacista Ferrari. È nella primavera del 1944 che Boidi opera la scelta di unirsi stabilmente ai partigiani, col nome di Piero. Una scelta non facile quella di schierarsi contro la Repubblica Sociale di Mussolini-Hitler, che raccoglie comunque un certo consenso, in un paese in cui molti avevano sostenuto il regime e vi sono rapporti sia con i repubblichini che con gli occupanti (una cugina, professoressa di lingue, per esempio, svolge attività di interprete con i tedeschi e sarà poi processata per collaborazionismo). Una scelta, d’altro lato, favorita anche da alcuni adulti di Cantalupo già coinvolti nell’opposizione al fascismo e che hanno avviato una prima serie di contatti col movimento partigiano; in particolare l’avvocato Carlo Arlanti (Carlino) ed il medico condotto del paese Giovanni Novelli (Antico). Essi sono collegati con Luciano Scassi (Luciano) di Castellazzo Bormida: ufficiale dei bersaglieri, costituisce una prima banda con alcuni soldati, tra cui il prof. Francesco Poggio (Strozzi). Proprio Scassi diviene il punto di riferimento per i partigiani della zona e stabilisce contatti con i rappresentanti alessandrini del Partito d’Azione e del connesso movimento “Giustizia e Libertà” (GL). L’adesione di Boidi alla formazione di Scassi (col nome di Piero) ci segnala una delle caratteristiche della partecipazione alla Resistenza: la scelta iniziale della formazione prescinde spesso da motivazioni ideologiche e politiche (a cui ben pochi erano avvezzi, visto il clima in cui erano cresciuti), sia perché le prime bande sovente non hanno ancora una chiara definizione/affiliazione ad una forza politica, sia perché giocano un ruolo determinante le persone che operano sul territorio vicino al luogo di origine di chi si arruola. Nel nostro caso, inoltre, va considerato che nell’area tra Alessandria e l’Acquese non è ancora organizzata una presenza partigiana di ispirazione cattolica, diversamente da quanto accade nel Casalese con la divisione “Patria”, guidata da Martino (Malerba). Non è quindi strano che un giovane cattolico si trovi in una banda giellina o garibaldina, specie se la sua adesione avviene nella prima fase della Resistenza, come è appunto il caso del giovane di Cantalupo.
I problemi della formazione partigiana
Il carattere e la generosità di Boidi, nonostante la sua giovane età, ne fanno rapidamente un punto di riferimento. Tra la primavera e l’estate del ’44, la banda guida da Luciano Scassi vede crescere i propri aderenti, ma sconta non poche difficoltà. Anzitutto la presenza in una zona di pianura ne rende molto rischiosa l’operatività, col pericolo di attrarre repressioni sui paesi di origine e sulle stesse famiglie, in una fase in cui non mancano i rastrellamenti nazifascisti. Per questo Luciano decide di trasferirsi in una zona più sicura e meno controllata, nel contempo non troppo distante dalla base di partenza. La scelta cade sull’area delle alte colline ponzonesi, nei pressi di Piancastagna, denominata Bric dei Gorrei. Il luogo risulta idoneo, sia perché si può raggiungere tramite strade secondarie e sentieri, che attraversano i boschi, utili a una buona copertura, dove si recuperano baracche per il ricovero. Un’area in cui si possono trovare anche appoggi da persone favorevoli alla lotta partigiana. Il trasferimento dalla pianura ai Gorrei avviene in bicicletta a fine aprile ’44, a ridosso dell’eccidio della Benedicta, che segna la prima fase del movimento partigiano tra Piemonte e Liguria. Al primo nucleo della banda di Luciano, di una ventina di uomini, si uniscono presto altri giovani provenienti dall’Acquese, collegati al CLN di Acqui, con a capo Filippo Ravera (Filippo) e Giovanni Ivaldi (Quadrato), insediati tra Morbello e Ponzone. Nel corso dell’estate la formazione si amplia ulteriormente, superando i cento uomini, toccando poi i 300 ad agosto e ben 400 a settembre. Una tale espansione, ovviamente, pone seri problemi di approvvigionamento e di organizzazione interna, di rapporto con la popolazione; inoltre, molti giovani che si uniscono alla formazione sono privi di addestramento militare. Si arriva quindi alla costituzione di un comando centrale di divisione, guidato da Scassi e dal commissario politico Giuseppe Novelli, ruolo poi ricoperto da Giuseppe Piccinini (Costo), con sede a Toleto e di 4 distaccamenti autonomi, dislocati nelle zone di Bandita (comandato da Francesco Goglino, Tito), Cimaferle (guidato da Filippo), Morbello (comandate Enrico Penati, Icaro), Orsara/Montaldo Bormida; quest’ultimo comandato proprio da Pietro Boidi con il compito di operare tra le colline e la pianura verso Alessandria. La suddivisione in distaccamenti favorisce l’incremento dei componenti, spesso provenienti dai paesi della zona, che quindi non lasciano in modo definitivo le proprie abitazioni. Nel mentre si intensifica la caratterizzazione politica con i contatti tra il comando militare e gli esponenti politici del Partito d’Azione di Alessandria, in particolare con Livio Pivano (Nemo). Non manca il sostegno attivo da parte di alcuni parroci della zona: don Boido a Pian Castagna, don Barba a Toleto, don Allemanno a Bandita. Espansione e criticità nell’estate del ’44 La consistenza assunta dalla formazione GL, pur costringendo a limitare le azioni svolte, per i problemi di organizzazione, rende ormai palese la sua presenza, mentre circolano molte voci su di essa, anche per atteggiamenti in qualche caso imprudenti. Diversi giovani mirano a sfuggire all’arruolamento nella RSI, dandosi alla macchia nei pressi del proprio paese, ma non sempre si fanno coinvolgere nella lotta armata. E non mancano bande di finti partigiani, che rubano ai contadini, già sotto pressione per il rischio reale di ritorsioni nazifasciste verso chi avesse aiutato i ribelli; si rischia così di compromettere il rapporto tra partigiani e popolazione, al punto da costringere GL e garibaldini a svolgere azioni di polizia, anche per la presenza di spie e delatori. In ogni caso, l’estate del ’44 vede anche nell’Acquese una fase di espansione di tutto il movimento partigiano, una parziale controllo di alcune zone, diverse incursioni andate a segno, un notevole successo conseguito dalla squadra di Tito, con la cattura di materiali e armi ed il passaggio alla formazione di 35 alpini della Divisione fascista “Monte Rosa”. L’attività partigiana si esprime però in modo ancora frammentato, senza un effettivo coordinamento tra le bande, nonostante alcune di esse operino sugli stessi territori. Oltre alla GL “Braccini”, che risulta la più ampia e organizzata, e a gruppi collegati con la Brigata GL savonese “Astengo”, operano formazioni garibaldine, tra cui quella guidata da Minetti (Mancini) tra Cartosio e Ponzone, quella collegata alla Divisione “Doria”, quella tra Alice e Quaranti guidata dal monarchico Augusto Scovazzi (Luciano); vi sono inoltre diversi gruppi autonomi tra val Bormida e langa astigiana, una Brigata Matteotti presso Molare, la banda guidata dal capitano Domenico Lanza (Mingo). Proprio questa formazione, trasferitasi nell’area di Morbello, è all’origine di una crisi del distaccamento GL, evidenziando le diverse tattiche militari impiegate e attraendo parecchi giovani della GL.
Più formazioni e diverse strategie
Per l’ampliarsi del movimento, tra l’estate e l’autunno ’44, il rischio di rastrellamenti diviene perciò sempre più alto, mentre si pone la questione dell’armamento di nuclei numerosi, come pure quello della tattica da impiegare: la presenza di ufficiali al vertice delle formazioni GL e la stessa influenza del conte Thellung di Ponzone (Duilio, colonnello di cavalleria, coordinatore militare della zona), conduce a privilegiare una modalità statica rispetto a quella tipica della guerriglia, che caratterizzerà poi la lotta nei mesi successivi ai grandi rastrellamenti. Gli elementi segnalati divengono perciò altrettanti punti critici nel momento in cui in autunno si scatena l’offensiva nazifascista, che coinvolge un’area molto ampia in tutto il basso Piemonte, dai confini col piacentino fino al cuneese, volta a stroncare il movimento partigiano che in diverse zone aveva assunto un controllo del territorio, attraeva giovani renitenti alla leva. Ciò preoccupava soprattutto i dirigenti fascisti, che vedevano indebolirsi progressivamente la loro presa sulla popolazione, mentre i tedeschi erano più concentrati sul presidio delle vie di comunicazione. In ogni caso la diffusione del movimento partigiano, l’aumento di azioni di sabotaggio, la crisi di efficienza dell’amministrazione di Salò e l’affiorare del consenso della popolazione verso i “ribelli”, sollecitano tedeschi e repubblichini a un’azione congiunta e massiccia. D’altra parte i partigiani confidano nel prossimo ritiro dei tedeschi e progettano ulteriori azioni; alcuni attacchi dei nuclei GL vanno a segno, tra cui quello al presidio tedesco di Castellazzo Bormida. A settembre le formazioni GL vengono riorganizzate nella VIII divisione, intitolata a Paolo Braccini (eroico esponente del comando militare regionale, fucilato dai fascisti in aprile). A Pietro Boidi va il comando della quarta brigata (con Giovanni Garavelli come commissario politico), che comprende diversi gruppi dislocati tra Orsara, Montaldo Bormida, Rivalta, Trisobbio, Castelnuovo Bormida, Cassine, Maranzana, Oviglio e Bergamasco.
La reazione nazifascista
L’entusiasmo dell’estate, che aveva portato la GL a progettare perfino piani per l’insurrezione, è però destinato a spegnersi: nel giro di poche settimane, tra inizio settembre e la fine di ottobre, gli scenari cambiano radicalmente. Anzitutto per il ridispiegamento delle forze nazifasciste, che nell’agosto del ’44 hanno insediato in provincia e nella val Bormida fino La chiesa di Bandita di Cassinelle con la lapide che ricorda i caduti del rastrellamento dell’ottobre ’44 Il sacrario di Piancastagna, con il centro didattico a Savona le divisioni “Monte Rosa” e “San Marco”. Pesa anche il rallentamento dell’iniziativa alleata, che allontana la prospettiva di una soluzione della guerra prima dell’inverno (poi esplicitata dal proclama Alexander ai primi di novembre). Una consistente azione di controguerriglia della Brigata Nera già il 3 settembre punta sulla zona tra Montaldo e Carpeneto, scontrandosi duramente con la formazione guidata da Piero Boidi, a cui viene in aiuto la brigata garibaldina “Carlino”; la mancanza di munizioni costringe i due distaccamenti partigiani a sganciarsi. Un’altra iniziativa è messa a segno da tedeschi e repubblichini a Ponzone, il 19 settembre, con diversi caduti, tra cui il giovane partigiano Ludovico Ravera. Non mancano le voci e i segnali di un imminente rastrellamento, che però vengono sottovalutate dal comando GL. Peraltro l’attacco tedesco del 3 ottobre contro la formazione garibaldina “Carlino” operante tra Acqui, Cassine e Maranzana costituiva una avvisaglia piuttosto chiara; ma gli uomini guidati da Mancini si sganciano subito dall’attacco e si spostano verso Nizza.
I rastrellamenti dell’ottobre ’44
I successivi rastrellamenti del 7, 8, 9, 10 ottobre, condotti con largo impiego di uomini e mezzi, circondando una vasta area, tra Olbicella, Bandita di Cassinelle e Pian Castagna, coinvolgono diverse formazioni partigiane, ma soprattutto i distaccamenti della GL, che sono presi alla sprovvista, organizzano una difesa statica, ma non riescono a reggere l’attacco. Molti sono i caduti tra partigiani e civili, con episodi di particolare violenza, con fucilazioni e impiccagioni, saccheggi e incendi di case. Fatti che hanno ripercussioni su tutto il movimento partigiano della zona. Sulla divisione GL “Braccini”, però, gli effetti sono particolarmente pesanti. Di fatto la formazione si sfalda: anzitutto per la dispersione dei vari gruppi sotto la pressione dei rastrellamenti, ma anche per una crisi interna legata alle diverse visioni circa il modo di condurre la lotta, per una intesa occasionale e fragile con i garibaldini, ancora lontana da una conduzione condivisa. Ai vari comandanti viene lasciata la decisione se continuare l’attività o rinviare la riorganizzazione a quando i rastrellamenti fossero finiti. Così, solo una parte dei partigiani della GL continua la lotta; Luciano ricostruisce con difficoltà una nuova banda, spostandosi nelle colline tra Orsara e Morsasco; verrà catturato a Castellazzo nel febbraio 1945 e fucilato ad Alessandria.
Verso le Langhe
Intanto il distaccamento guidato da Boidi è riuscito a evitare l’attacco nazifascista, in quanto collocato in un’area esterna al rastrellamento, senza però possibilità di intervenire immediatamente, in quanto costituito prevalentemente da gruppi residenziali. Considerata la pressione, decide di lasciare la zona del Ponzonese (meta di ulteriori incursioni tedesche) e spostarsi verso le Langhe, per unirsi alle formazioni autonome di Mauri. L’auspicata unità di servizi tra le formazioni GL e garibaldine non si realizza; anzi, le diffidenze aumentano per l’intenzione espressa da qualche comandante garibaldino di assorbire gli uomini della GL, disorientati dopo il rastrellamento e la crisi della “Braccini”. Mancini con i garibaldini della “Viganò” sarebbe in effetti rientrato nel Ponzonese a novembre, occupando l’area prima controllata dalla GL “Braccini”. Secondo altra fonte, il trasferimento di Boidi aveva lo scopo di difendere la zona libera di Nizza, in cui si era costituito un governo partigiano, contro la quale ci si aspettava una imminente iniziativa.
L’epilogo a Mombaruzzo
In ogni caso il trasferimento di Boidi si intreccia con l’offensiva nazifascista lanciata il 20 ottobre ‘44 verso la zona libera, muovendo proprio da Cantalupo lungo tre direttrici, con oltre 700 uomini, tedeschi e fascisti, pesantemente armati. Inizialmente i partigiani riescono a respingere l’attacco, nella “battaglia di Bruno”. Nel passaggio dall’Acquese verso le Langhe la banda di Boidi si ferma alcuni giorni nella zona di Mombaruzzo; qui viene intercettata da una delle colonne nazifasciste, guidata dal generale Raffaele Delogu. Catturato, viene interrogato e percosso: di fronte ai suoi uomini e ad altre persone del paese rastrellate, afferma che i giovani presenti non fanno parte del movimento e di essere l’unico responsabile; si rifiuta di fornire informazioni sui compagni e la collocazione dei gruppi partigiani; di fronte alle minacce dei fascisti, con determinazione risponde: “Ho sbagliato? Ebbene, pago!”. Viene caricato su un camion e condotto alla fine del paese, lungo la strada per Bruno; qui viene ucciso con una raffica alla schiena ed un colpo alla nuca, mentre grida “Viva l’Italia libera”. Altre testimonianze aggiungono particolari: Teresio Pavese (Leonida), un sergente dell’aviazione, partigiano con Boidi fin dal febbraio e Francesco Poggio, suo compagno di brigata, ricordano che Piero si era recato in Comune a Mombaruzzo per telefonare al comando militare di Nizza per dare notizia dell’avanzata dei nazifascisti. Il collegamento telefonico è indirettamente confermato da una memoria di Davide Laiolo, al momento al vertice militare della Repubblica, che la stessa mattina del 20 ottobre risulta in contatto telefonico con un partigiano di Mombaruzzo, che gli comunica la cattura e la fucilazione di Boidi appena avvenuta. All’arrivo della Brigata Nera, per evitare ritorsioni e proteggere i compagni, Piero si sarebbe consegnato volontariamente ai fascisti, forse contando sul fatto che tra i comandanti repubblichini vi era un suo professore, il colonnello Giorgio Roda, vice commissario federale del Partito Fascista provinciale di Alessandria. La notizia della sua esecuzione giunge rapidamente a Cantalupo, da cui il padre e alcuni familiari partono per recuperare il cadavere. Nel mentre alcuni partigiani del suo gruppo riescono a unirsi alla 5A divisione autonoma Monferrato, che partecipa alla difesa della zona libera di Nizza.
I segni della memoria
Il sacrificio di Boidi diviene subito un simbolo della lotta partigiana. Al suo nome viene intitolata una brigata GL, formatasi provvisoriamente nel novembre ’44 dopo lo sbandamento, nella stessa zona dell’Acquese dove egli aveva operato; tale brigata sarà poi ricostituita nel febbraio ’45 sotto il comando di Giovanni Garavelli, operando in pianura nella zona di Castellazzo. Dopo la liberazione, a Cantalupo, nel maggio 1945, si svolsero i funerali dei tre partigiani del paese uccisi durante il periodo della resistenza e per i quali non erano state possibili le esequie: oltre a Boidi, Carlo Arlanti e Francesco Guida. Grande partecipazione alla funzione religiosa e civile, anche se non mancarono polemiche rispetto all’omelia del parroco, segno di una difficile riconciliazione all’interno del paese, che coinvolse anche l’attività della locale Commissione per l’epurazione, a cui tocca misurarsi con presunti casi di collaborazionismo. Pietro viene sepolto nella cappella del cimitero di Cantalupo, mentre una lapide ricorda i partigiani sull’edificio della locale Soms. Ricorda il sacrificio di Boidi un’altra lapide sul Municipio di Mombaruzzo. Due strade gli vengono poi dedicate, a Cantalupo e a Mombaruzzo. Alla fine del conflitto a Piero fu riconosciuta la Medaglia d’argento al valor militare (attualmente conservata presso l’Isral), con la seguente motivazione: «Valoroso partigiano, comandante di brigata, superbo per ardimento, sempre primo all’attacco, emerse con virtù di capo nei numerosi fatti d’arme sostenuti dal suo reparto. Sorpreso da pattuglia nemica durante un’azione di rastrellamento, veniva fatto prigioniero e minacciato di essere passato immediatamente per le armi se non avesse rivelato i nomi dei compagni di lotta e lo schieramento partigiano della zona. Opposto fiero e deciso rifiuto, preferì la gloria del martirio alla vergogna del tradimento e cadeva trucidato sul margine della strada gridando “Viva l’Italia”. Mombaruzzo 20 ottobre 1944». Nel contempo si apriva la vicenda dell’individuazione dei suoi assassini. Uno di questi venne identificato nel maresciallo della GNR Mario Ricagno, arrestato a Milano il 27 aprile 1945, per l’omicidio di Boidi e per avere comandato il plotone di esecuzione che ad Alessandria aveva fucilato tre partigiani nel settembre ’44. Processato e giudicato colpevole venne condannato a morte con altri fascisti, ma sopravvisse all’esecuzione. Nel ’47 fu condannato a 30 anni di reclusione dalla Corte d’Assise di Alessandria. Nuovamente processato nel 1949 anche per un altro omicidio avvenuto nel novembre ’44 a Frugarolo, venne condannato a vent’anni di reclusione.
La figura umana e cristiana di Boidi
È infine significativo considerare la figura umana e cristiana di Pietro Boidi, che rimase per molto tempo un riferimento. Francesco Poggio, che condivise con lui l’esperienza resistenziale, parla di “una vicenda umana e cristiana esemplare, espressa nell’arco di una vita breve, ma spiritualmente intensa. Perciò Piero Boidi rappresenta il simbolo della partecipazione alla Resistenza dei giovani di Azione Cattolica della nostra Provincia […]” (F. Poggio, La luminosa figura di del partigiano Boidi, in “Il Piccolo” del 24/4/1975). Questa riflessione sulla vicenda di Boidi, come per tanti altri casi di partigiani e patrioti, pone in evidenza anche sul piano storico il valore della dimensione religiosa, nel campo delle motivazioni, delle scelte, dei comportamenti. Un elemento sovente trascurato dalla storiografia, ma che si evidenzia ogni volta che si riesce ad intrecciare l’analisi dei fatti e delle azioni a quella dei contesti formativi e delle motivazioni personali.
L’autore
Vittorio Rapetti, insegnante in pensione, già presidente diocesano di AC ad Acqui e poi Delegato regionale per tre mandati, si occupa di formazione storica e costituzionale.
Ha curato diversi lavori sulla resistenza locale, tra cui V. Rapetti a cura di, Memoria della Resistenza, resistenza della memoria, nell’Acquese, Acqui Terme 2007; il dvd con R. Paravagna, Quell’ottobre del ’44 nel 2009; P. Reverdito, La giusta parte. 1933-1945, Acqui Terme 2009; A. Bianchi, Il prezzo della libertà, Acqui Terme 2011; AA.VV., La Resistenza, in Italia, in Piemonte e in Val Bormida, 2015; G. C. Merlo, P. Reggio, La resistenza nell’Albese, tra storia e memoria, Acqui Terme 2016.
Estratto dalla rivista di storia locale
“Iter”, numero 24, aprile 2022.
L’autore esprime un ringraziamento particolare all’Isral, a Dionigi Clemente, al prof. Mario Rivera, al dott. Alessandro Capra e al dott. Massimo Branda.