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Paolo e sua mamma, Mirella

Paolo Lambertini: «A 14 anni ho perso mia madre nella strage di Bologna»

Bologna, 42 anni dopo

Se dovessimo partire da un’immagine per raccontare la strage alla stazione di Bologna, cominceremmo da questa: c’è un uomo con gli occhiali, pochi minuti dopo l’esplosione, in mezzo al caos e alle macerie, che pulisce il vetro impolverato del suo taxi con uno strofinaccio sporco. Il resto del suo mezzo è distrutto da pietre e detriti schizzati fuori dalla stazione, ma lui continua a pulire quel vetro, piangendo disperato. Questa immagine racconta perfettamente quel momento. C’è dentro tutto il dolore e la disperazione di Bologna, i suoi cittadini e un intero Paese. Ma c’è anche la dignità di chi non si arrende, non si piega a quella violenza senza senso e guarda avanti. Pure in mezzo a una montagna di macerie, morti e lacrime.

A pochi metri da quella scena, tra i corpi senza vita, c’è anche quello di Mirella Fornasari, 36 anni, che lavora in stazione. Il figlio, Paolo Lambertini, allora 14enne, oggi racconta su queste pagine una storia che si incrocia con la Storia. Nel nostro dialogo non leggerete di depistaggi, massoneria, Servizi segreti, pezzi deviati dello Stato o personaggi della destra eversiva. Forse avremmo dovuto, perché questa è una delle pagine più nere della storia d’Italia: dentro c’è tutto (e anche di più), come in molte stragi che hanno funestato il nostro Paese (ne parleremo ancora la prossima settimana).

Qui sotto, invece, troverete “soltanto” il dolore di un ragazzino che a 14 anni ha perso la madre, una vita stravolta da quella bomba del 2 agosto 1980. Troverete un dolore che continua, anche a distanza di anni, e si percepisce negli occhi e nella voce. Ma troverete anche la dignità dell’andare avanti, nonostante il peso della vita. La stessa dignità di quel signore con gli occhiali che puliva il vetro impolverato del suo taxi distrutto. Pochi minuti dopo l’esplosione alla stazione di Bologna, 42 anni fa.

L’intervista

Sono trascorsi 42 anni da quel 2 agosto 1980, ma il tempo sembra non essere mai passato. Fermo e cristallizzato, come l’orologio della stazione di Bologna che segna ancora le 10.25: l’ora della bomba. Posizionato nella sala d’aspetto di seconda classe, e con 23 chili di esplosivo al suo interno, l’ordigno fece saltare in aria donne, uomini e bambini. Un bilancio drammatico: 85 morti e oltre 200 feriti. «Un massacro» titolerà La Repubblica il giorno dopo.

Sembra ancora tutto fermo a quel 2 agosto 1980, dicevamo, e ce ne rendiamo conto quando conosciamo e incontriamo, virtualmente, Paolo Lambertini. All’epoca era un ragazzino di 14 anni, Paolo: sua madre è una delle 85 vittime della strage, si chiamava Mirella Fornasari, aveva 36 anni ed era una impiegata della Cigar, la società che gestiva la ristorazione della stazione. Riusciamo a vederli gli occhi di Paolo che si emozionano ancora, e sentiamo anche la sua voce che si spezza al ricordo di quei momenti. Lontani 42 anni, è vero, ma in fondo ancora lì.

Oggi Paolo è vicepresidente della “Associazione tra i familiari delle vittime della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980“. È un libero professionista e si occupa di formazione sportiva. «Ma adesso la gran parte della mia vita la dedico all’Associazione…» ci racconta sorridendo durante la nostra videochiamata. Ricopre questo ruolo con dedizione e serietà, alla ricerca delle tante verità ancora offuscate e coperte su questa pagina nera della storia del nostro Paese. Lo deve a sua mamma, alle vittime di quel 2 agosto e ai loro parenti. Ma si sente in dovere di farlo anche per tutti noi, per un profondo senso di giustizia che, nonostante il dolore lungo 42 anni, non si è mai sgretolato.

Lambertini, facciamo 42 passi indietro. Chi era lei nel 1980?

«Ero un ragazzino di 14 anni, figlio unico di una famiglia normale. Vivevo, oltre che con mamma e papà, anche con i nonni paterni. Una famiglia senza grandi disponibilità, ma che aveva il sogno di avere una casa tutta propria. Mio padre era un artigiano autonomo nell’ambito delle bilance. Mia mamma, invece, era una ragioniera, ma aiutava anche mio papà con i conti della sua attività. In particolare lei lavorava in una società che gestiva la ristorazione della stazione, la Cigar. Io, in quell’estate, avevo appena finito la prima superiore. Ero immaturo: un ragazzino, appunto».

Cosa si ricorda di quegli anni?

«Sinceramente non avvertivo il clima di tensione caratteristico di quel periodo. I miei genitori mi “proteggevano”, tenendomi fuori da tutti questi ragionamenti politici o violenti. Le bombe, quella del ’69 a Milano, e quelle del ’74 a Brescia e al treno Italicus, sembravano lontane. Ricordo invece molto bene il caso Moro, nel 1978, perché ero a letto con una broncopolmonite. Ma al di là di questo, in casa non erano temi che venivano discussi in mia presenza».

Poi arriva quel 2 agosto 1980.

«Ho un ricordo preciso e nitido di quella mattina. Stavo rientrando a casa, dopo essere stato nell’orto che avevamo lungo il fiume, vicino alla nostra abitazione. Sento squillare il telefono, rispondo e c’era un mio grande amico, lo storico compagno di banco delle medie. Rimasi spiazzato dal tipo di domande che mi venivano fatte. Aspettavo che mi dicesse: “Vediamoci, vieni a giocare a casa mia”. Invece mi chiedeva se ero solo in casa e come stava la mia famiglia. Ho capito solo dopo che da lui avevano già visto l’edizione straordinaria del telegiornale, e sapevano cosa era successo in stazione. Ho passato il telefono a mia nonna e dall’altro capo ha risposto la madre del mio amico. Abbiamo acceso la tv in cucina. Sullo schermo, un 14 pollici in bianco e nero, ricordo il giornalista in primo piano, e sullo sfondo l’immagine della stazione presa dall’alto: era già tutta distrutta. Io sapevo benissimo dove lavorava mia mamma. Anzi, avrei collocato in maniera precisa anche la sua scrivania (abbassa lo sguardo per un secondo)».

Cosa è successo dopo?

«Istintivamente ho iniziato a telefonare al suo ufficio. Lo ricordo ancora a memoria il numero di telefono. Anche se non c’era linea, ho continuato compulsivamente per diverso tempo. Finché non è arrivato a casa mio papà, mi ha caricato in macchina e siamo andati in stazione. Non ricordo che ora fosse, ma abbiamo trovato già piazza delle Medaglie d’Oro sbarrata e bloccata da un cordone di persone che impediva l’accesso. Alcuni Vigili urbani ci spiegarono, con garbo, che non era il caso di andare oltre: i soccorsi erano attivi e tutti stavano dando una mano, come potevano. A quel punto sentii urlare mio papà: “Ma là c’è mia moglie”. E io accanto, ho ripetuto: “Ma là c’è mia mamma”. Anche se non sono sicuro di averlo detto, forse l’ho solo immaginato: non ho la percezione di ciò che usciva dalla mia bocca in quei momenti. Quei Vigili ci hanno detto di andarla a cercare negli ospedali, perché avevano già portato via tante persone. Così abbiamo fatto».

Come ha vissuto quelle ore di attesa?

«Della ricerca negli ospedali se n’è occupato mio papà e qualche suo amico. Io l’attesa l’ho vissuta a casa, che intanto si era popolata di parenti e amici, perché tutti sapevano che mia mamma lavorava in stazione e non era lì per caso. Le ore passavano, non arrivavano notizie e non si trovava. Così fino a sera, e sono andato a letto. Questo lo dico anche con un senso di colpa, perché mi sono addormentato senza sapere che fine avesse fatto mia mamma. Mi scuso dicendo che era stata una giornata stressante, e sono andato a dormire, anche convinto da parenti e amici che continuavano a “raccontarmela”, come diciamo a Bologna: “Vedrai, domattina sarà tutto risolto e faremo una festa. La mamma sarà da qualche parte, nel caos, ma sta bene. Vedrai…”. Dentro di me però non avevo alcuna speranza».

E il giorno dopo?

«La mattina vengo svegliato da alcuni rumori. Mi alzo e vedo mia nonna in corridoio: “L’hanno trovata” mi dice. Il modo in cui me lo aveva detto era sufficiente, non doveva aggiungere altro per farmi capire (si ferma). Di fatto mia mamma è stata l’unica persona ritrovata nella notte. È rimasta schiacciata da uno dei muri del suo ufficio, fino alle 2. Credo proprio che Agide Melloni, autista del famoso “37”, l’autobus di linea che è stato utilizzato per trasportare vittime e feriti, abbia fatto il suo ultimo giro proprio con mia mamma».

Dei giorni successivi cosa ricorda?

«I funerali di Stato del 4 agosto, c’erano solo sette bare. Decisi di non andarci, ma ricordo i racconti di piazza Maggiore pienissima, e le immagini dei giornali. Il funerale di mia mamma lo abbiamo celebrato in forma privata. In quei primi giorni, casa mia si è popolata di tante persone. Poi, dopo il primo periodo, pochi sono rimasti. Quegli stessi che mi sono stati vicini per anni, e continuano a farlo (si commuove)».

Tra questi, immagino, anche suo padre. Lui come ha affrontato questa ferita?

«Mio padre oggi non c’è più. Ha vissuto quasi quarant’anni aspettando di morire (si commuove ancora). Ha passato i primi vent’anni andando al cimitero ogni giorno, portando sempre un fiore fresco. Ha passato tutta la vita pregando di andarsene in maniera naturale, per potersi ricongiungere con mia mamma. Facendomi anche capire che se era lì, e non si era suicidato, lo aveva fatto per me e i miei figli. Ha vissuto il suo dolore in modo molto intimo, ma invitandomi a far parte dell’Associazione, a credere in quei valori che l’hanno costituita. Il 2 agosto partecipava sempre alle manifestazioni, dopo essere stato al cimitero. Senza farsi mai vedere».

E lei, invece?

«Se ho trovato un equilibrio è grazie alla rete affettiva di amicizie che da quel 2 agosto non si sono mai defilate. Non mi hanno mai lasciato solo. Lì per lì, sono cose di cui non ti accorgi, ma le “maturi” dopo. Oggi un equilibrio credo di averlo trovato, anche grazie al fatto di poter portare la mia testimonianza a giovani e studenti. Ho dato un senso a questa vicenda, a quel dolore e a quelle fatiche, che ci sono ancora, anche a distanza di 42 anni. Perché nessuno mi ridà indietro mia mamma, quegli anni e quella vita normale».

Qual è stata la risposta di Bologna e dei bolognesi, subito dopo la bomba?

«Non ho un nitido ricordo della reazione dei bolognesi: ho vissuto momenti offuscati e non ho ben realizzato. Ho ricostruito poi dopo, grazie a racconti e testimonianze. In quei giorni si sono attivate tantissime persone: dalle signore che arrivavano con un batuffolo d’alcol ai sacerdoti che hanno scavato o dato l’estrema unzione, fino a sera. C’era chi ha tenuto aperto il negozio di ottica e riparava occhiali gratuitamente. Poi Agide Melloni, autista del “37” di cui vi parlavo prima, da mezzogiorno fino a notte ha trasportato vittime e feriti. Lui racconta che passava con l’autobus e accanto aveva un’ala di folla che lo accompagnava, in segno di rispetto. In Comune si era formato un centro di coordinamento per le vittime e coloro che avevano bisogno. Un lavoro fantastico da parte di tutti, testimoniato anche dalla Medaglia d’Oro al valore civile donata a Bologna, poco più tardi. E voglio sempre ricordare che il 118 è nato proprio in seguito a quel tipo di evento: uno degli infermieri presenti alla strage, Marco Vigna, è stato il teorico del numero di emergenza che conosciamo oggi».

Proprio con quel senso di orgoglio e quello spirito di dignità nasce la vostra Associazione.

«Viene fondata il 1° giugno 1981, quasi a un anno di distanza dalla strage. L’idea parte prima, nella primavera dell’81, dal momento in cui a Catanzaro si stava celebrando il processo della strage di Piazza Fontana, a Milano, del 12 dicembre 1969. Uscirono titoli di giornali che dicevano: “Tutti assolti”. E anche qui a Bologna si temeva potesse andare allo stesso modo. Ma i familiari e i cittadini non ci stavano all’idea di non avere giustizia. Allora alcuni si unirono: i primi sono stati Torquato Secci, primo presidente, Paolo Bolognesi, attuale presidente, Giorgio Gallon, e anche la moglie di Angelo Priore, una delle vittime. L’impressione, a distanza di anni, è che se non si fossero messi insieme non si sarebbero ottenuti questi risultati dal punto di vista processuale. Da lì è partito tutto: oggi come allora l’unico intento, come si legge nel nostro statuto, è quello di “ottenere con tutte le iniziative possibili la giustizia dovuta”».

E a distanza di 42 anni potete dire di averla ottenuta una “giustizia dovuta”?

«Si può dire di aver ottenuto una parziale verità e una parziale giustizia. Vorrei sottolineare una cosa: di fronte ad avvenimenti di questo tipo, molti dicono: “Non si saprà mai nulla, è un mistero. Figurati…”. Non è vero, di verità ne sappiamo tante. Ma è indubbio che ce ne siano molte altre da scoprire: a tutti noi il compito di andare avanti».

Di fronte a vicende come questa è possibile avere giustizia? Ed è sufficiente?

«Uno fa i conti a livello intimo con il proprio dolore, anno dopo anno, crescendo in una “normalità” diversa. Poi, ovvio, credo nella giustizia, altrimenti non ci sarebbe l’Associazione che si batte rivolgendosi alla parte pulita dello Stato. Penso anche che si debba fare di tutto per attivare la parte migliore delle istituzioni. Spesso si definisce questa una “Strage di Stato”. Io non riesco a pensare che faccia parte di quello Stato, così marcio, anche il giudice Mario Amato, ucciso nel giugno del 1980, che aveva scoperto cose che forse avrebbero potuto fermare questa strage. Ma anche Vittorio Occorsio, il magistrato ucciso nel 1976, che ancora prima di Amato, aveva intuito la loggia massonica P2. Il giudice Giovanni Tamburino, giudice che ha ricevuto da un detenuto alcune informazioni sulla strage, le riporta a un capocentro dei Servizi segreti che non farà nulla. Non posso pensare che di quella parte oscura del Paese faccia parte anche la magistratura di Bologna, che ha fatto un lavoro incredibile. È vero, ci sono stati gradi di giudizio faticosi, che hanno raggiunto una parte della verità, e che 42 anni sono un tempo difficile da accettare. Ma senza il loro lavoro, ne sapremmo davvero poco. Fatico a vedere altre scene, invece…».

Per esempio?

«Non ci sto a vedere liberi Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (ex militanti dei Nuclei armati rivoluzionari, condannati all’ergastolo come esecutori della strage, insieme all’allora minorenne Luigi Ciavardini, ndr). Hanno diversi ergastoli perché, oltre alla strage, hanno ucciso carabinieri e ragazzi, tirato bombe, fatto rapine. In più, non hanno mai collaborato con la giustizia, ma oggi sono liberi. E questo mi fa arrabbiare. Rispetto la scelta del giudice di sorveglianza, ma chiedo anche che ci sia qualcuno che verifichi se questo giudice si sia preso una certa libertà… Nonostante tutto, a distanza di 42 anni, siamo dalla parte sana dello Stato, che è la maggioranza».

E ai giovani come si fa a raccontare di questa “parte sana” dello Stato?

«Portando la testimonianza, affinché possano capire l’importanza della cittadinanza attiva, della partecipazione. Se non proviamo a trasmettere fiducia nello Stato, tutti potrebbero pensare che la politica è da evitare, la partecipazione una perdita di tempo e che lo Stato fa quello che vuole. Raccontare eventi come la strage, invece, significa affermare questo: “Lo Stato siamo noi, e possiamo avere un ruolo attivo, anche in queste vicende cupe e offuscate”. Possiamo aiutare e collaborare con le istituzioni o lasciare che le cose vadano per il loro corso. Se le lasciamo andare, però, dopo non possiamo lamentarci».

Ha un rimpianto, o qualcosa che avrebbe voluto dire a sua mamma?

«(si ferma) Ho due rimpianti. Uno è di essermi lasciato convincere a non vedere mia mamma morta, dentro la bara. Ricordo, come se fosse ieri, le frasi di parenti e amici: “Meglio se te la ricordi da viva”. Però è un rimpianto troppo grande, e non so se la mia vita sarebbe stata migliore o peggiore».

Il secondo?

«Sembrerà banale, ma in quel periodo, mi ero innamorato… A fine giugno avevo partecipato a una vacanza itinerante: eravamo un gruppo di ragazzi e ragazze, solo con la tenda, in giro per l’appenino tosco-emiliano. Una di queste ragazze mi aveva sorriso e avevamo iniziato a parlare. Nadia, si chiamava, era patita dei Police. A lei piacevo, e lei mi piaceva. Tornato a casa, sentivo queste sensazioni e mi chiedevo se dovessi raccontarle alla mamma. Per tre o quattro volte sono stato a un passo dal dirglielo, ma poi mi fermavo. Tra me e me, dicevo: “Vabbè, dai, ho tutto il tempo per raccontaglielo…”. Il 1° agosto stavamo imbiancando casa, e sentivo che quello era il momento giusto per parlargliene. Ma anche lì, mi sono bloccato. Così sono sceso di sotto per buttare la vernice avanzata nella spazzatura, e con il bastone ho disegnato un cuore scrivendoci dentro la “P” di Paolo e la “N” di Nadia… era un modo per dirglielo, indirettamente».

Lo avrà visto?

«Me lo sono sempre chiesto, e continuo ancora oggi. Uscendo di casa per andare a lavoro, mia mamma è sicuramente passata davanti ai cassonetti. Per questo a me piace pensare che la mattina di quel 2 agosto lei abbia visto il cuore, magari un po’ stupita, e abbia capito che ero stato io a farlo. Oppure, semplicemente, ha sorriso, perché in fondo aveva già intuito tutto. Proprio come solo le mamme sanno fare (sorride)».

Alessandro Venticinque

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