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Fausto Biloslavo, da 40 anni inviato di guerra

Intervista esclusiva al giornalista triestino, dopo due mesi e mezzo in Ucraina

Sono tanti i giornalisti che in questi mesi provano a raccontare ciò che sta accadendo in Ucraina. C’è chi lo fa restando in Italia, c’è chi va sul campo, in prima linea, a narrare la parte più dura del conflitto. Tra questi c’è Fausto Biloslavo, uno dei volti di riferimento dell’informazione italiana. Triestino, classe 1961, Biloslavo è giornalista di guerra da 40 anni. Scrive per i quotidiani “Il Giornale“, “Il Foglio” e il settimanale “Panorama“, e collabora con Mediaset (molti di voi avranno visto il suo volto e sentito la sua voce nei molti tg dell’emittente). Nel corso di questi anni, diverse volte, ha rischiato la propria pelle.

Come nel 1987, quando viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul (Afghanistan) per sette mesi. Rilasciato grazie all’intervento del Capo dello Stato, Francesco Cossiga, ritorna in Afghanistan, dove un camion militare lo travolge riducendolo in fin di vita. Ma non solo. Sempre il giornalista triestino, nel 2011, è stato l’ultimo italiano a intervistare il colonnello Muammar Gheddafi, durante la rivolta in Libia. E non poteva mancare nemmeno in Ucraina, Biloslavo. C’è stato per oltre due mesi, da un fronte all’altro: Kiev, Karkiv, Dnipro, Odessa, tutto il Donbass in mano ucraina. «Ovunque, tranne a Mariupol, perché circondata dai russi. Lì non si può passare» ci racconta, al telefono.

Nella nostra intervista ripercorriamo qualche aneddoto di questi suoi 40 anni al fronte. Racconta di conflitti ed episodi di tanti anni fa, ma che assomigliano alle immagini a cui assistiamo, oggi, nel cuore dell’Europa. Segno lampante che gli anni passano, le armi cambiano, e anche il modo di informare cambia, ma il dramma rimane. Il dramma della guerra che non ha ancora abbandonato questo mondo. E non sembra avere intenzione di farlo.

Biloslavo, ci stiamo avvicinando ormai ai 100 giorni dall’inizio del conflitto in Ucraina. Rispetto alle prime settimane di guerra, in Italia ci stiamo abituando, e forse anche un po’ stancando, di tutta questa crudeltà. È davvero così?

«Temo di sì. Perché la guerra fa paura e viene istintivo allontanarla dai pensieri. Ci stiamo stancando, ma la sentiamo vicina, è a 1.200 chilometri da noi. Il conflitto sta arrivando a 100 giorni, ma è destinato a proseguire. Cosa faremo se non si trova una via di uscita? Continueremo a convivere con questa guerra, facendo finta di niente? Nel Donbass si combatte da otto anni, e abbiamo visto cosa succede quando si fa finta di non vedere. Non vorrei che questa dimenticanza, quasi assuefazione, nei confronti della guerra, ci porti in un buco nero da cui è difficile uscire. I pericoli, là, ci sono sempre stati, non sono spariti. Anzi, si accentuano giorno dopo giorno».

Il giornalista in Afghanistan
al fianco di un plotone di Marines statunitensi (2008).

Domenica 22 maggio (stand del Friuli Venezia Giulia, ore 13), al Salone del libro di Torino, sarà protagonista dell’incontro “Dall’Afghanistan all’Ucraina, raccontare la guerra” con il giornalista e scrittore Alessandro Mezzena Lona. Per lei sono 40 anni sul fronte a raccontare le guerre. Viene spontaneo chiederle: chi glielo fa fare?

«(Sorride) Me lo chiedo tante volte. Per esempio, me lo sono chiesto nel Donbass sotto le bombe o nel Kherson sotto le granate. Ogni volta vince la passione per questo mestiere. Non tanto per essere un inviato di guerra, ma per la voglia di testimoniare e raccontare a lettori e telespettatori ciò che succede, oggi, nel cuore dell’Europa. Qualcuno deve farlo, deve andare sul posto, in prima linea. Raccontare i “morituri”, tutti quei soldati che andranno in trincea e che vengono estratti con la monetina: hanno paura, sanno di andare incontro alla morte o, se va bene, a ferite gravi. Raccontare i bombardamenti, le persone che scappano, i bambini-soldato morti, alcuni di loro potevano essere miei figli… Ripeto, qualcuno deve farlo».

C’è un aspetto di questa guerra che la spaventa rispetto alle altre che ha raccontato?

«Sì, che è nel cuore dell’Europa ed è a costante rischio di allargamento. L’escalation è dettata anche dalla comprensibile paura di altri Paesi, penso a Finlandia e Svezia, che adesso vogliono entrare nella Nato. Putin, che aveva invaso per evitare l’allargarsi dell’Alleanza atlantica, ha ottenuto il contrario, come un effetto boomerang. E poi questa è una guerra convenzionale: da una parte c’è la super potenza russa e dell’altra parte la difesa territoriale ucraina, che se potesse si difenderebbe anche con le fionde. Solo che difendersi davvero significa missili, carrarmati, bombe. Significa guerra, significa morti».

Quindi è giusto, anche da parte dell’Italia, fornire armi?

«Io ero al fianco, in tante trincee, dei militari ucraini. Dico che dobbiamo aiutare la resistenza, la guerra non si fa con le margherite. Ma con maggior forza bisogna aiutare gli ucraini a trovare una via di pace. Ripeto, con maggior forza. Questo, però, non avviene. Le vie diplomatiche, da un mese e mezzo a questa parte, sono state accantonate. Ogni volta che si apre uno spiraglio viene versata benzina sul fuoco, con frasi o attacchi sul campo. La pace è un negoziato, e la fa chi ha le mani sporche di sangue. È brutto da dire, ma la pace si fa con il sangue, dell’una e dell’altra parte».

Chi si è sempre schierato contro gli aiuti militari è papa Francesco. Che peso avrà la sua voce negli accordi diplomatici?

«Una voce importante. Premetto che non sempre sono stato d’accordo con i pensieri e le parole del Pontefice. Ma devo ammettere che in questi mesi la sua voce è stata di spessore. Di fatto, anche se non è ufficiale, l’Italia è cobelligerante, e quindi non si può proporre come mediatore. Serve un terzo leader mondiale, al di sopra delle parti e con un grande carisma. E il Papa ha dimostrato di essere una grande potenza non “materiale”. Una figura che può portare le parti a sedere attorno a un tavolo e le convinca a farla finita con le armi. La diplomazia vaticana svolge un lavoro sottotraccia e fondamentale, e spero che Francesco possa diventare il vero mediatore».

In questa guerra ci sono anche tanti sacerdoti che aiutano chi è rimasto in Ucraina. Penso, per esempio, alla storia del salesiano padre Oleh, che lei ha raccontato sui canali web di “InsideOver“.

«Padre Oleh è un salesiano che è stato per diverso tempo anche a Torino. È uno dei tanti coraggiosissimi cappellani militari, l’ho accompagnato nel viaggio a Sieverodonetsk: fa la spola con dei furgoni per andare a recuperare i civili che non possono scappare, portando aiuti e medicinali provenienti dall’Italia. È di un coraggio incredibile, è disarmato ma ha un’unica arma: la forza della fede. Ogni giorno attraversa strade pericolose, in mezzo ai bombardamenti. Anche quel giorno ci siamo trovati in mezzo a tiri di artiglieria. E, guardando la croce salesiana che ha al collo, mi ha detto: “Ogni volta è così, ma don Bosco e Maria Ausiliatrice mi proteggono. Le bombe cadono sempre prima o dopo di me”. Nel mentre, faceva lo slalom, guidando veloce, per portare delle medicine a un civile che non poteva muoversi… Tanto di cappello a questi preti coraggio».

Gheddafi e Biloslavo

Ogni giorno siamo tempestati di notizie, tra tg e talk televisivi. Qual è lo scarto tra la realtà che lei vede sul “campo” e quella che arriva a noi?

«Da là non riuscivo a vedere e leggere tutto. Ma quando ero in collegamento con vari programmi tv, sentivo i dibattiti nei talk. Spesso e volentieri ho sentito delle incredibili “baggianate”, soprattutto dai politici: molti di loro non hanno una minima idea di ciò che accade, non hanno nemmeno chiaro dove si trovi geograficamente l’Ucraina. E questo mi ha preoccupato molto. Soprattutto in queste situazioni, in cui l’obiettività non esiste, occorre almeno essere corretti e andarci piano. Non andiamo avanti con i paraocchi, schierandoci da una o dall’altra parte. Se l’Unione europea per 77 anni ha avuto il merito mantenere la pace, adesso dobbiamo riconquistarla. Per questo è importante dare un contributo dal campo, affinché i fatti siano più chiari».

Quindi fare vera informazione in guerra è impossibile?

«È molto difficile, soprattutto in un conflitto come questo. Oltre alle bombe, parallelamente c’è l’infowar, la guerra di informazione tra propaganda e disinformazione. Una confusione che non ho mai visto in nessun altro conflitto, anche in era moderna. Un grande pericolo, perché tutto diventa offuscato e della guerra non si capisce più nulla. Questo ci porta a dividere in due con l’accetta, buoni di qui e cattivi di là. Chiaro, sappiamo tutti chi è l’aggressore e chi sono gli aggrediti. Dopodiché la realtà ha mille sfumature differenti e da raccontare».

Un’immagine dall’Ucraina che porta nel cuore?

«Ne ho due. La prima sicuramente il peluche intriso di sangue alla stazione di Kramatorsk, dove un missile, sganciando delle bombe a grappolo, ha causato 58 morti e oltre 100 feriti. Non interessa sapere se quel missile è stato lanciato dagli ucraini o dai russi. Penso a quel bambino spazzato via: non c’è più niente di lui, rimane solo il suo peluche. Ero lì, ho vissuto e raccontato quei minuti drammatici. Quel peluche è stato portato all’Onu. È diventato uno dei simboli di questa guerra».

La seconda?

«Ero sulla prima linea più dura nel Donbass, a Popasna, quella stessa zona occupata dai russi alcuni giorni fa. Lì, ho trascorso del tempo con i “morituri”, di cui vi parlavo prima. Dovevano uscire in trincea e dare il cambio agli altri soldati morti o feriti. Tutta la squadra si preparava, scrivendo i cognomi sulla mimetica, sulle braccia e sulle gambe. Questo perché, nel caso fossero rimasti spappolati, qualcuno sarebbe riuscito a recuperare almeno una parte del loro corpo, da portare a casa in un sacco nero ai familiari. Poi hanno lanciato la monetina per scegliere a sorte i primi cinque. C’era silenzio, sono rimasto colpito da questa scena. “Se vuoi puoi andare fuori con loro. Però non so se tornerai ferito o morto. Hai 20 minuti per decidere” mi ha detto il comandante. Ho pensato che avevo già sfidato granate e missili balistici, e ho deciso di tornare indietro con lui. Appena l’ho comunicato, la squadra ha applaudito, mi hanno abbracciato, e mi hanno detto: “Hai fatto la scelta giusta. Tu porterai questi video in Italia e farai vedere come combattono i soldati ucraini”. E, per me, continuare a raccontare questo vuol dire rendere loro omaggio».

Come finirà questo conflitto?

«Se va avanti così, purtroppo, si rischia un Afghanistan nel cuore dell’Europa. Con la Nato e gli americani che continueranno a dare armi per logorare l’esercito russo e Putin. Il conflitto, in queste condizioni, è destinato a proseguire per altri 5-10 anni. Siamo sicuri di poter andare avanti così?».

Torniamo ai suoi 40 anni di inviato al fronte. C’è un episodio a cui tiene e che vuole raccontarci?

«Sì, è un grande rimpianto che porto nel cuore. Era il 1994 e seguivo il genocidio in Ruanda, un massacro che ha portato a 800 mila persone fatte a pezzi, con “armi bianche”, in due mesi e mezzo. Sono stato da tutte e due le parti del conflitto, con i Tutsi e gli Hutu. Siamo arrivati in un villaggio bruciato, tutto distrutto, non rimaneva più niente. Nella boscaglia vediamo qualcosa che si muove e i ribelli accanto a me, con i kalashnikov in mano, sono pronti per sparare. Io ho un’intuizione, e gli dico di abbassare le armi. Subito dopo esce fuori un ragazzino di neanche 10 anni, con addosso i vestiti della sorella. Era l’unico sopravvissuto a quel massacro. Non parlava, si esprimeva a gesti, ma ci ha accompagnato nella chiesa lì vicino. Entrati, vediamo i 400 fedeli ammazzati a colpi di machete, e il prete, ancora sul pulpito, con un foro in testa. Ho portato a casa il Messale su cui poggiava il corpo del sacerdote: era aperto sui sette dolori di Maria. Ogni volta che parto o torno per andare al fronte, lo apro anch’io…».

E di quel bambino che ne è stato?

«Gli ho dato da mangiare dei biscotti e dell’acqua, gli ho messo in mano cento dollari e il mio biglietto da visita. Poi lo abbiamo portato in salvo, lasciandolo dalle suore missionarie. Il mio grande rimpianto è di non averlo adottato, portandolo qui, in Italia… (sospira) Ogni tanto ci penso, sono passati molti anni. Ma ho sempre sognato che un giorno mi avrebbe chiamato, dicendo: “Sono quel bambino che hai salvato nel 1994, sto bene. Ti ricordi di me?”».

Alessandro Venticinque

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