Intervista a Giuseppe Pipitone
La voce di Giuseppe Pipitone (nella foto, qui sopra), 35enne giornalista di ilfattoquotidiano.it, è giovane e decisa. È nato ad Alcamo (Trapani), ed è cresciuto in quel clima teso fatto di mafia, omertà e bombe. Poi ha cominciato a raccontarle, quelle cose, andando a fondo senza fare sconti a nessuno. Per togliere il velo d’insipienza sopra i tanti buchi neri del nostro Paese, che ancora oggi sono coperti. Ed è anche per questo che, a 30 anni dagli attentati ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Pipitone ha realizzato il podcast “Mattanza” (disponibile su ilfattoquotidiano.it e sulle diverse piattaforme digitali). Otto puntate con interviste e testimonianze inedite, per capire di più e scavare metaforicamente a mani nude tra le macerie di Capaci e via d’Amelio. In quella tragica stagione del 1992, di cui ancora oggi non sappiamo tutto. E sentiamo forte il bisogno di conoscere la verità.
Pipitone, il podcast sottotitola: “Le stragi del ’92 come non ve le hanno mai raccontate”. Cosa c’è di nuovo?
«Le stragi del ’92 spesso sono state raccontate come fatti singoli e slegati dal resto d’Italia. Come un mero fatto di mafia, una vendetta nei confronti di due magistrati, diventati simbolo della lotta a Cosa Nostra. La storia delle stragi del ’92, però, ha enormi buchi neri, voragini di trama, che 30 anni di indagini e processi non sono riusciti a colmare. Era necessario, quindi, dare uno sguardo di insieme. Unire i puntini per capire il perché di tutti questi buchi neri, e in che modo le stragi di Capaci e via d’Amelio si collocano in un periodo storico complesso e frastagliato. Ricordando sempre che quella nuova stagione di destabilizzazione non è un fulmine a ciel sereno, perché eventi di sangue erano già avvenuti prima».
Come mezzo usi il podcast.
«Sì, perché ci apriamo a un pubblico che, in grande percentuale, sta tra gli under 40. La molla è stata capire che i miei coetanei, anche informati e interessati, considerano le stragi come un fatto di mafia e una vicenda chiusa. Con tutti i boss, o quasi, già arrestati o morti in carcere. La vivono come una battaglia risolta, vinta e da archiviare. Invece non è così, perché ancora oggi c’è tanto da scoprire e ci sono processi non ancora chiusi: come quello della strage di via d’Amelio, o quello sulla cosiddetta trattiva “Stato-mafia”».
Il podcast inizia con la “spedizione romana” degli uomini di Riina, tra cui i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e Matteo Messina Denaro, per uccidere Giovanni Falcone a Roma. Che poi però viene fatto saltare in aria a Capaci… perché?
«È una domanda da un milione di dollari (sorride). Il motivo per cui Cosa Nostra decide di cambiare strategia rimane un mistero, ancora oggi. Non solo per noi, ma anche per gli stessi mafiosi. Gaspare Spatuzza (che il 15 settembre 1993 ha assassinato padre Pino Puglisi, ndr), ex imbianchino di Brancaccio poi diventato killer di fiducia dei fratelli Graviano, in un’udienza dice: “La genesi di tutto è quando Cosa Nostra decide di non uccidere Falcone a Roma, e lo fa in Sicilia con quella modalità. Lì non è più solo mafia, ma è tutta un’altra storia”. Cosa Nostra ci ha sempre insegnato che le cose si devono fare in maniera “pulita”: allora perché organizzare un attentato così clamoroso, con un alto coefficiente di fallimento? Se l’obiettivo era eliminare Falcone e basta, a Roma c’era tutta la possibilità di farlo, e anche con facilità, perché spesso girava senza scorta. Ma a un certo punto Riina, il boss dei corleonesi, ordina: “Dovete scendere perché abbiamo trovato cose più grosse”. Quali siano queste cose, rimane ancora un mistero…».
Ed è un mistero anche l’omicidio di Borsellino, 57 giorni dopo la strage di Capaci e a pochi giorni dalla scadenza per convertire in legge il “decreto Falcone” che introduceva il carcere duro per i mafiosi: il “41 bis”.
«Pure questo rimane un mistero, anche per i mafiosi stessi. Un’altra strage eclatante a un altro magistrato noto, a meno di due mesi dall’ultima: era evidente che quell’episodio avrebbe provocato una reazione dello Stato. Mancava poco alla scadenza del decreto legge che istituiva il “41 bis”, i boss avevano quindi tutto l’interesse a stare zitti e quieti. E lo fanno notare anche mafiosi di alto rango, come Raffaele Ganci, boss della Noce, che dice a Riina: “Totuccio, così ci roviniamo”. E lui risponde: “No, prendo io la responsabilità, dobbiamo farlo subito subito… Ho parlato con persone importanti”. Senza mai spiegare chi fossero queste “persone importanti”. Rispondere a queste due domande vorrebbe dire risolvere un gran pezzo del rebus sulle stragi».
A 30 anni di distanza le stragi sono ancora in mezzo a noi, coperte e offuscate?
«In mezzo a noi è la locuzione adatta, visto che in libertà c’è ancora Matteo Messina Denaro, un boss che conosce segreti e verità, e li porta a spasso ogni giorno. Non so quanto siamo distanti, so che siamo di fronte all’ultima occasione: se lo prendono a stretto giro, Messina Denaro potrebbe rivelare ancora tante ombre nascoste. In certi casi siamo stati davvero vicini alla verità, ma ci è evaporata davanti. Non sono sicuro che sia già finita, ma potrebbe finire presto».
Con “Mattanza” si approfondisce ogni aspetto delle stragi. Anche le infiltrazioni di apparati deviati dello Stato: forze dell’ordine, Servizi segreti, massonerie ed estremisti di destra. Possiamo collegare quegli eventi del ’92 con la strage di Bologna, avvenuta nel 1980? Nell’immaginario collettivo questi due momenti sono staccati e con protagonisti diversi: è così?
«Ci sono personaggi in comune invischiati nella strage di Bologna e che poi hanno un ruolo, oscuro e poco chiaro, nelle stragi siciliane. Per esempio, c’è Elio Ciolini, estremista di destra, condannato per aver depistato la strage della stazione, che nel marzo del ’92, mentre è in carcere a Firenze, fa sapere che è a conoscenza di un piano di destabilizzazione dell’Italia. Poi prevede l’omicidio di Salvo Lima, parlamentare della Democrazia cristiana, ma anche Capaci e via d’Amelio. Ma parla, addirittura, delle stragi del ’93, raccontando di esplosioni in luoghi pubblici contro civili inermi. Recentemente, per Bologna è stato condannato in primo grado all’ergastolo Paolo Bellini. Lui stesso aveva detto di essersi infiltrato in Cosa Nostra: si trovava a Enna nel dicembre del ’91, nello stesso periodo in cui Riina radunava capimafia, massoni e una serie di personaggi ambigui per progettare le stragi. Inoltre, dice la Procura generale di Bologna, la strage del 1980 è stata finanziata e organizzata da Licio Gelli (“Maestro venerabile” della loggia massonica Propaganda 2, ndr). Nel ’92 e ’93, Cosa Nostra insieme a pezzi di massoneria ipotizza di scendere in politica con una serie di partiti indipendentisti, tra cui “Sicilia libera” e le cosiddette Leghe meridionali, a cui parteciperà lo stesso Gelli. Non solo: nell’ultima sentenza su Bologna viene analizzato da un’altra prospettiva anche l’omicidio del 6 gennaio 1980 di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, nonché fratello di Sergio, attuale Presidente della Repubblica. Questo omicidio dovrebbe farci pensare, per due motivi. Il primo, Falcone nel ’91 dice alla commissione antimafia: “Se venissimo a scoprire la verità, dovremmo riscrivere molte cose della storia di questo Paese”. Il secondo: non sappiamo chi ha ucciso Mattarella, non c’è nessun condannato. Mi ha sempre colpito il fatto che la famiglia del cittadino più importante d’Italia, dopo tutti questi anni, sia ancora senza verità…».
Qualche giorno fa, nel processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, è stata emessa la sentenza di primo grado dal Tribunale di Caltanissetta: prescritto il reato per due dei tre imputati poliziotti, Mario Bo e Fabrizio Mattei, e assoluzione per Michele Ribaudo. Ad Adnkronos l’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia Borsellino, ha commentato: “Io mi rendo conto che questo è un Paese anestetizzato, che dedica più spazio alla separazione di Totti piuttosto che al depistaggio di via D’Amelio, però la collettività deve essere informata e deve cominciare a pretendere comportanti diversi, e soprattutto la verità”. Questo Paese, oggi, non ha interesse a cercare la verità?
«Secondo me non è vero. C’è stato un periodo, tra la fine degli Anni 90 e i primi 2000, in cui davvero nessuno si occupava di quei fatti, che all’epoca erano recenti. Condivido ciò che dice Trizzino, che è anche marito di Lucia Borsellino, una delle figlie del magistrato. Ma aggiungo che negli ultimi 15 anni ho visto le procure lavorare, la gente scendere in piazza e informarsi con libri e documentari. Devo dire che in passato c’è stato un cono d’ombra che ha permesso a chi doveva depistare le stragi di muoversi liberamente. Sarebbe servito un pungolo, senza sconti, per tutti».
A chi ti riferisci?
«Per esempio, nessuno interroga Pietro Giammanco, procuratore capo del Tribunale di Palermo, il capo di Borsellino, che la mattina del fatidico 19 luglio chiama il magistrato e gli dà la delega per indagare a Palermo. Prima non gli aveva permesso di ricoprire questo incarico e quel giorno lo fa di fretta, in una telefonata turbolenta, come se non ci fosse tempo da perdere. Giammanco è morto nel 2018, non 30 anni fa: si potevano chiedere delle cose in un’aula di tribunale, sotto giuramento. Si poteva chiedere sempre a lui perché, come si evince dai diari di Falcone, non permetteva di indagare sull’organizzazione paramilitare Gladio. E poi, nessuno ha chiesto a Giovanni Tinebra, procuratore capo di Caltanissetta, perché non interrogò Borsellino sulla strage di Capaci, nemmeno dopo le dure parole del giudice pronunciate pubblicamente il 25 giugno 1992. Sicuramente abbiamo avuto un problema di verità, ma è stato creato ad arte. Che ora la gente parli più di Totti e della Blasi, non mi scandalizza. Siamo un Paese nazionalpopolare, da sempre».
A fare questo mestiere, ti sei mai sentito in pericolo?
«No, è pericoloso indagare per i magistrati che ci lavorano e che toccano interessi ai piani alti. Noi siamo soltanto uno specchio. Sì, è vero, in passato quello specchio è stato mandato in frantumi perché rifletteva una realtà troppo brutta, e molti colleghi sono stati massacrati, ammazzati, minacciati. Oggi mi spaventano certe querele temerarie… e, purtroppo, ne ho una collezione vasta. Si va avanti, ma il rischio e il pericolo non possono diventare l’oggetto principale del nostro mestiere. Fare il giornalista è raccontare i fatti, le storie, e non possiamo passare il nostro tempo a parlare di noi stessi. Il giornalista deve essere il narratore e non il protagonista della storia. Altrimenti cambia tutto».
L’Italia ha nella sua storia depistaggi, stragi, finti suicidi, trattative subdole… A vederlo da fuori, ci si chiede come possa stare ancora in piedi.
«È questo il punto: questo Paese va avanti grazie a quello che è successo. Se nel ’92 fosse stata resa nota la matrice reale delle stragi sarebbe crollata la Repubblica. Se negli Anni 70 e 80 fosse stato reso pubblico che i Servizi segreti foraggiavano, coprivano e depistavano le indagini su quella che è la strategia della tensione, fatta di bombe che colpiscono civili e persone innocenti, si sarebbe spaccata l’Italia. Questo Paese è andato avanti grazie al fatto che la verità è stata coperta. Ovvio, è andato avanti male, in una certa modalità definita da pezzi deviati dello Stato. E poi, era netta la volontà di bloccare qualsiasi rischio di riscrittura della verità: con il lavoro di Falcone e Borsellino, alcuni personaggi correvano davvero il rischio di dover saldare i conti con la giustizia».
Ancora una cosa. Come può un cittadino normale vivere nel quotidiano gli esempi di Falcone e Borsellino?
«L’unico modo è vivere in maniera onesta e con rettitudine, ogni giorno. Ovvero non cercare mai le scorciatoie, anche nelle cose più banali. Ma anche informarsi e scegliere con criterio il proprio voto, argomento che va forte negli ultimi giorni. Falcone e Borsellino non hanno soltanto combattuto Cosa Nostra, ma hanno anche proposto un certo modo di guardare e vivere la vita. Ci hanno insegnato a non piegare la testa di fronte a quel sistema mafioso. Un esempio che ancora oggi ci è indispensabile».
Alessandro Venticinque
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