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Don Franco Torti, una vita per la Chiesa

Intervista a don Franco Torti

Don Franco, raccontaci la tua vita.

«La mia famiglia era una di quelle tipiche, solide nel lavoro dei campi e santificata dalla fede che viveva all’ombra del campanile della chiesa di Solero. Già Solero, un paese della pianura alessandrina che era stato capace di donare alla Chiesa nientemeno che un Santo, Bruno; molti sacerdoti, tante suore… e molta buona gente, radicata nella tradizione della devozione. Sono nato in un giorno di sole primaverile, così mi è stato detto, e ho allietato subito la casa di papà Giovanni e mamma Margherita. Dopo le frequentazioni tipiche di ogni bimbo, è venuto il tempo delle scelte. Per i miei parenti, com’è naturale, è stato scontato fare progetti sul mio avvenire; c’è chi mi vedeva già affermato professionista, chi abile imprenditore, ma su di me aveva già posato gli occhi quel Padre del cielo che sa scegliere, gli operai per la sua messe. Questa volta, come per altro risulta anche in altri casi, il Padre del Cielo aveva due complici d’eccezione: la Madonna e mia mamma Margherita. Ed è a loro, oltre che al Padre del Cielo, devo la sicurezza della scelta. Maria, poi, è stata maestra nel conquistare il cuore di coloro che diventeranno ministri del Suo Figlio e nel mio ancor oggi occupa un posto d’onore, lo ha fatto da subito; almeno alla pari con quello dei miei genitori terreni. Mia Mamma non ha voluto essere da meno della Madonna e ha accostato il suo amore di madre alla mia giovane vita desiderando affidarmi, per intero a Cristo e alla sua Chiesa (e a questo proposito gli occhi di don Franco brillano di commozione, ndr). Fu allora che entrai in seminario, era il 2 ottobre 1942, in piena guerra mondiale. Le prime emozioni, lo smarrimento, la fiducia che rinasce, le amicizie che si moltiplicano. Il tempo passa; come detto c’è la guerra, cadono le bombe e allora è opportuno trasferirsi nella villa che la diocesi possedeva nei pressi d’Oropa. Anche in quel luogo ho trovato ad attendermi Maria e col suo sorriso mi aiuta a cercare Gesù. Trascorrono gli anni e viene il momento del primo incarico presso il collegio vescovile di Santa Chiara, come assistente dei giovani. L’impegno è sempre lo stesso: cercare di fare bene le cose che mi sono affidate. C’è tempo per tutto, anche per festeggiare, ciascuno nel proprio modo, il giorno della “leva”».

E poi arriva l’ordinazione sacerdotale.

«Finalmente il grande momento si alza sul giorno 28 giugno 1953, tra poco saranno 70 anni fa! Nella cappella della Madonna della Salve, la Patrona della Diocesi, quella mattina ci sono proprio tutti; c’è il buon vescovo monsignor Gagnor, il rettore del seminario monsignor Civera, il canonico Nebbia, tanti sacerdoti, i chierici e poi, nascosti dalle ombre che le luci della chiesa allungano sul pavimento di marmo lucido, ci sono papà Giovanni e mamma Margherita. Dall’alto Maria che è sorretta da san Giovanni ai piedi della croce, per un attimo lascia il suo volto addolorato per sorridere a me che sto per pronunciare il mio “sì” eterno a Cristo, unito alla Sua Chiesa. Inizia per me una vita di meraviglie che si rinnova ogni giorno ai piedi dell’altare, come la liturgia di allora mi suggeriva e che ancor oggi rinnova la giovinezza del mio spirito a 70 anni di distanza dalla mia prima messa ho provato a fare un conto terreno di quante ne ho celebrate e mi sono arreso, non senza emozione, dopo averne contate quasi 40 mila! Il vescovo di allora mi ha chiamato a essere fedele servitore della Chiesa e credo, come ne sono stato capace, di non esserne mai venuto meno. Neppure nei momenti più difficili che attraversano la parte umana del sacerdote che è pur sempre un uomo. L’emozione di allora era grande; ero un altro Cristo, assai meno degno, piccolo, quasi invisibile accanto a Lui e pur tuttavia, fasciato nella sua ombra. Ero stato chiamato come ministro, come padre d’anime e pastore del piccolo gregge che mi sarebbe stato affidato. Ho iniziato come vice parroco a Grava, dove sono stato inviato presso quel sant’uomo di don Rangone che ha avuto la lungimirante premura di introdurmi alla pratica della vita parrocchiale, affidandomi il gruppo assai nutrito di giovani».

E poi come continua la tua avventura sacerdotale?

«Passati alcuni anni, sono trasferito con il medesimo ruolo, nella parrocchia di Bassignana, dove mi attendeva il severo ma giusto, monsignor Vincenzo Massobrio che aveva l’espressione burbera ma, sotto, sotto, nascondeva un cuore d’oro e si prese subito cura della mia crescita nel ministero, insegnandomi i segreti per condurre una comunità, nel clima del pre-Concilio; vale a dire in un continuo fermento di novità spirituali. Viene il momento del trasferimento in città per un’esperienza che mi sarà preziosa nella futura vita sacerdotale. Mi attendeva la parrocchia del quartiere Cristo di Alessandria dove, il parroco don Francesco Gatti, era promotore di vulcaniche attività, spirituali e sociali e del quale io sono stato più volte complice, interessandomi ancora una volta dei giovani. Ben maturato in quel crogiuolo, nel 1966 passi come cappellano e responsabile al collegio Enaoli di Valenza dove vivevano ragazzi orfani e, nello stesso tempo, assistente nell’oratorio della parrocchia di Santa Maria Maggiore. Erano gli anni entusiastici dell’immediato post Concilio».

Quindi da quando sei parroco?

«Finalmente nel 1969 mi viene affidata, autonomamente, la prima parrocchia e divento parroco di Rivarone. Sono molte la cose che ho proposto a quella comunità, tante sono note, mentre altre sono rimaste inizialmente nel cuore di Dio, per realizzarsi, sempre come parroco, a Pecetto, dove fui inviato, obbedendo alla volontà del vescovo Charrier, di venerata e stimata memoria. Ma questa è una storia che appartiene a un’altra fase della mia vita sacerdotale».

Allora, prima di proseguire, raccontaci quali esperienze hai avuto nel contesto della diocesi.

«A partire dal 1970 e per molti anni a seguire, c’è stato l’incarico permanente come redattore del giornale diocesano “La Voce alessandrina” che mi ha consentito di collaborare in un campo di grande comunicazione sociale, come pure la passione per la radio, della quale con monsignor Luigi Riccardi sono stato fondatore, che mi ha messo quotidianamente in contatto con diverse persone attente nell’ascolto e affezionate nel sintonizzarsi sulle frequenze di trasmissione. Per tanti e tanti anni ho continuato a trasmettere da Rivarone con collegamenti anche con la radio Vaticana. Sono stato docente di religione nella scuola media che mi ha consentito di insegnare per ben 30 ininterrotti anni di servizio; generazioni di studenti si sono formati e ancora oggi hanno contatti con me e mi fanno sentire ancora coinvolto in quella esperienza appassionante».

Puoi raccontarci la tua esperienza di parroco svolta anche a Pecetto?

«La mia vita sacerdotale non si esaurisce con la seconda parrocchia di Fiondi, perché, all’inizio del 1995, il Vescovo, come accennato, mi chiede nuovamente una disponibilità, proponendomi di diventare parroco anche di Pecetto. Non so dire di no e accetto. La Vergine Maria, protettrice delle tre parrocchie mi aiuterà certamente, così come ha fatto sempre. Ricordo un episodio che mi piace rammentare: trovo nella disponibilità di quella comunità seguita da Luciano Orsini che diventerà presto diacono permanente, continuando a essere il mio primo e permettetemi, insostituibile collaboratore, una vivacità che non avrei immaginato. Vengono subito da me e si mettono a mia disposizione. Luciano mi dice: “Parli e noi facciamo…”, e ha sempre mantenuto la promessa. Si parte al lavoro, da subito. Idee su idee e tutte fino a oggi realizzate. La scuola di catechismo ha ripreso con vigore anche grazie ai catechisti ben formati e alla loro disponibilità che ritengo a oggi, un supporto insostituibile in una realtà dove per i bambini trovarsi al catechismo significa far vivere nel paese la continuità della radice cristiana che diversamente potrebbe perdersi. In questi quasi 30 anni si son fatti: i tetti della chiesa e delle cappelle laterali; quelli della canonica, quelli dell’oratorio; quelli del portico. Si è sistemato il piano terreno della casa parrocchiale, rifatta la facciata sul fronte piazza e quella interna sul fronte cortile; rifatta la facciata dell’oratorio; risistemata la sala al piano terreno e quella al piano superiore. In chiesa è rifatto l’impianto di riscaldamento, quello di diffusione audio, collocato l’impianto d’allarme, restaurato l’altare di san Giuseppe e la relativa tela; rifatto in marmo il nuovo presbiterio, rifatto l’impianto di automazione delle campane e dell’orologio, restaurate per intero tutte le cappelle nei parati decorativi. Grazie alla intraprendente azione di don Luciano, la chiesa compresa del pronao, è completamente restaurata grazie ai generosi pecettesi che non hanno mai fatto mancare il loro più che concreto aiuto e al contributo della Cei è riportata all’antica bellezza. È stato inserito l’impianto antivolatili e restaurato completamente l’organo. Allo stesso modo è stato per la chiesa della SS. Trinità. In questo Luciano è peggio di me: quel che si mette in testa lo fa (si commuove ancora, ndr). È stato creato un formidabile gruppo di collaboratori, uomini e donne che se mi permettete, sono l’invidia per tante altre realtà ben più grandi di Pecetto e ancor oggi continua. Ma ciò che veramente vale sono tutte quelle opere spirituali che con don Luciano siamo riusciti a fare nel cuore della gente, con interventi sui singoli e sul popolo di Dio. Grazie a Luciano è rinata anche la corale san Remigio che oggi conta un numero rilevante di componenti. Infine nel mio cuore c’è sempre stato posto per tutti, per quelli che mi amano come ministro di Cristo e per quelli che a volte mi ignorano; non posso far a meno di alzare, ogni giorno, al Signore l’offerta di tutti noi perché quando la Provvidenza lo vorrà, possiamo essere tutti ospitati dall’unico Padre che ci vuole raccolti nel suo regno di Gloria. Nelle mie comunità ho vissuto il ricordo dei 50 anni di sacerdozio, poi i 60 e ora mi appresto a celebrare il mio settantesimo da prete e il sessantesimo da parroco».

Don Franco, non pensi alla pensione?

«Non mi ha mai neppure sfiorato l’idea. Nel 2010 a causa dell’aver sottovalutato un problema che inizialmente era leggero, per continuare la mia missione, mi è stato amputato un piede e da allora vivo su una sedia a rotelle. Ebbene, mi sono detto: è forse sceso Cristo dalla croce? Certo che no; e io che sono un suo ministro e gli ho giurato fedeltà senza limite, posso farlo? Ripeto: non ci penso neanche. Il mio desiderio di 93enne, prete da 70, è quello di rimanere parroco nelle mie parrocchie come sono stato per sessant’anni, finché ne avrò la forza, finché il Signore mi sosterrà con la salute che grazie a Lui ho riacquistato e della quale godo i risultati. Mi sento ancora utile nella vigna nella quale Cristo ha piantato la sua vite e credo di poter dare ancora tutto quello che posso alla Chiesa, al mio Vescovo e per quel popolo che Dio mi ha assegnato senza pormi condizioni di attesa, e senza che io sperassi in una pensione che rifiuto e che non voglio. Sul calendario dei preti, ogni giorno è segnato in rosso: perché è sempre festa? No! Perché il lavoro quotidianamente ci attende e se sapremo svolgerlo come piace a Lui, un giorno potremo essere nell’infinito Amore che ci ha assicurato per la nostra fedeltà al Suo disegno».

E. G.

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