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Vicinanza, tenerezza e compassione: un Papa che parla senza usare le parole

Per la prima volta nella Storia, un Pontefice entra in uno studio televisivo

«Sto andando al programma “A Sua immagine”, a ringraziarli perché da tanti anni preparano la preghiera dell’Angelus. Un lavoro positivo». Inizia così lo “speciale” del format realizzato in collaborazione tra Cei e Rai, con un ringraziamento. L’incontro, organizzato personalmente da papa Francesco attraverso don Marco Pozza, cappellano del carcere Due Palazzi di Padova, è stato un momento storico perché per la prima volta un Pontefice si è recato come ospite in un programma televisivo.

Nonostante ciò, la sua naturalezza, il rispetto del silenzio e dei tempi televisivi, la partecipazione agli applausi e gli sguardi diretti negli occhi delle persone che parlavano con lui, insieme alle risposte brevi e comprensibili, mi hanno fatto pensare che non fosse la sua prima volta in uno studio televisivo. A questo si aggiunge, oltre a quella degli autori, la bravura di Lorena Bianchetti, conduttrice del programma, per la sua capacità di mantenere il ritmo televisivo nel rispetto tenero e sincero del “ruolo” del Papa e degli 86 anni compiuti dal Pontefice lo scorso dicembre.

Devo confessare che ho pianto in diversi momenti mentre guardavo lo “speciale”. Non tanto per l’eccellente confezione tecnica ed editoriale del programma, che ha saputo legare musica e immagini a temi non facili da affrontare, e nemmeno per le parole del Papa stesso: ma per Francesco, l’uomo, e per il suo modo di parlare senza l’uso delle parole. Ora cercherò di non versare lacrime su questo articolo e proverò a raccontare ciò che mi ha colpito di questa storica puntata. Cominciamo dal tema della comunicazione.

«I media devono aiutare a trovarsi, a capirsi, a fare amicizia. A mandare via i diavoletti che rovinano la vita della gente. Questa è la positività. Non è soltanto parlare di religione. Certo, si può parlare di Dio. Ma anche custodire l’umanità, l’umanesimo». Come direttore delle Comunicazioni sociali della nostra Diocesi, ho trovato grande conforto in queste parole per il lavoro che stiamo svolgendo dal 2016, perché questi sono proprio i temi e le sfide che abbiamo affrontato in questi anni.

Qualche volta abbiamo commesso degli errori, altre volte abbiamo portato a casa dei successi. Qualche volta abbiamo ricevuto il bene, altre volte, inaspettatamente, il male. Allora iniziamo con l‘incontro, che non è mai scontato. Da un lato, i mezzi di comunicazione devono essere strumenti di incontro tra le persone che li utilizzano e, dall’altro, devono essere un motivo di “incontro” tra le persone che lavorano nei vari mezzi di comunicazione di una comunità. In questo senso, la relazione che si è creata con i media locali, dai siti web ai giornali cartacei fino alle televisioni e alle radio, è stata estremamente positiva.

È stato possibile “trovarsi” con tutti loro, insieme con il nostro Vescovo, per discutere del mondo della comunicazione e persino realizzare alcune produzioni insieme. Ciò che ho imparato in questi anni è che per poter collaborare è necessario “capirsi“: il che non significa essere d’accordo su tutto, ma accettare l’altro e le diverse visioni che si possono incontrare sulla propria strada. È così che si è sviluppato un bel rapporto di amicizia con alcuni di loro, una trasformazione che dà significato alla parola “sociale” che la Chiesa affianca al termine “comunicazione”. Comunicazione sociale, infatti, significa utilizzare i mezzi di comunicazione con l’obiettivo ultimo della relazione.

Ma non solo. Sono estremamente orgoglioso di come il nostro settimanale, diretto da Andrea Antonuccio, abbia iniziato a parlare della vita di fede in un modo diverso, attraverso la vita vissuta, la vicinanza umana e le interviste che ogni settimana “raccontano senza raccontare”. Come l’umanità di papa Francesco che, dopo aver abbracciato Serena e Matteo, la coppia di giovani genitori che ha incontrato al Gemelli durante il suo ricovero e che si sono affidati al suo abbraccio nel momento della morte della loro figlia, dice: «Non ci sono parole per il dolore, soltanto i gesti e il silenzio. Per accompagnare il dolore, per capire il dolore, soltanto il gesto: prendere per mano e stare vicino all’umanità». Da qui derivano le tre parole da ricordare se vogliamo essere più vicini a Dio: vicinanza, tenerezza e compassione.

Papa Francesco può permettersi di usare le “parole” proprio perché la sua vita parla con lui, le parole sono solo una conferma della sua estrema credibilità. Come quando ci ha fatto capire che, per assomigliare di più a Dio, è necessario comprendere appieno il significato del termine “gratuità“. Dio ci ama gratuitamente, ma questo amore costa la fatica della vita, un amore che va accettato, scelto e guadagnato. Nessuno può amare gratuitamente se non ha fatto l’esperienza del guadagnarsi la gratuità dell’amore. Un gioco di parole che possiamo leggere nella gioia dei suoi occhi e nella fatica del suo camminare.

E questa è proprio la differenza che esiste tra il nostro Papa e la società moderna, una società che con Gregory Bateson, antropologo, sociologo e psicologo britannico di metà Novecento, potremmo definire “schizofrenica“. La comunicazione, come abbiamo detto, rende possibili le relazioni umane ed è il loro sostegno. Dal suo punto di vista, questo include tutti i processi attraverso i quali una persona influisce sulle altre. I media diventano quindi una componente determinante della struttura sociale, che merita di essere analizzata.

Bateson sviluppa la teoria del doppio legame, una situazione in cui la comunicazione tra due individui presenta un’incognita tra il livello verbale (cioè ciò che viene detto a parole) e il livello non verbale (gesti, atteggiamenti, scelte). La situazione è tale che chi riceve il messaggio si trova intrappolato in situazioni contraddittorie, dove qualsiasi scelta comporta una punizione emotiva. Questo fenomeno, alla base di alcune forme di schizofrenia, può essere costantemente osservato nei mezzi di comunicazione. Per esempio, quando un programma proclama un valore morale e un altro lo viola, ciò genera conflitti nella mente degli spettatori, specialmente se sono bambini o persone con un basso senso critico.

Papa Francesco spezza completamente questa tendenza della società moderna, mostrando una sana coerenza tra la sua vita e le sue parole. Ovviamente, per coerenza non si intende una posizione rigida e inamovibile, ma una fermezza che tiene conto della relazione e di chi si ha di fronte, con tenerezza.

«Non so se questa categoria esiste in psicologia. […] Ma quelli che sono un po’ superficiali, cadono nella tentazione del pavone. Cercano di apparire, di fare finta di… e questa non è la strada. […] La vita è per viverla, non per fare il maquillage». Con questa nuova “teoria psicologica”, Francesco racconta il suo desiderio di una Chiesa che sia coerente con la vita e non solo con la religione, esattamente come diceva San Francesco di Sales: «Non parlare di Dio a chi non te lo chiede. Ma vivi in modo tale che, prima o poi, te lo chieda».

di Enzo Governale
Direttore Comunicazioni Sociali della Diocesi

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