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Croce Rossa: una grande famiglia che aiuta… anche chi aiuta

Parla Valentina Menna, Cri di Alessandria

Valentina Menna ha 28 anni e lavora come dipendente alla Croce Rossa di Alessandria. «Sono entrata come volontaria nel 2013, dopo i corsi di preparazione: dal centralino fino ai servizi di trasporti intraospedalieri. Ma ho fatto anche il 118 nelle situazioni di emergenza, essendo già maggiorenne e avendo conseguito il cosiddetto “Allegato A” (certificazione necessaria per poter svolgere il ruolo di volontario del soccorso, ndr). Poi ho fatto un anno di Servizio civile, fino al 2015. Sono stata ancora volontaria e, a cavallo tra il 2016 e il 2017, ho avuto il contratto come apprendista. Dopo tre anni sono diventata dipendente della Croce Rossa». Tutto questo, e molto altro ancora, ce lo racconta la stessa Valentina, che oggi è l’unica donna dipendente come autista e soccorritrice della Cri alessandrina.

Valentina, da quando sei in Croce Rossa?

«Mi sono iscritta quando ero all’ultimo anno del Liceo Classico, perché avevo intenzione di fare Medicina. Poi, facendo il test di ingresso, per pochi posti non sono riuscita a entrare, ma volevo comunque avvicinarmi al mondo sanitario, per conoscere e vedere da vicino l’ospedale e l’approccio con i pazienti. Ho chiesto allora alla Croce Rossa e, al primo corso disponibile, mi sono iscritta. All’inizio non sapevo bene come fosse quell’ambiente, nessuno tra familiari e amici lo conosceva: mi stavo lanciando un po’ alla cieca. Ma quando ho conosciuto bene questo mondo ho capito di far parte di una grande famiglia. E che le persone al suo interno hanno qualcosa di diverso, di speciale».

A un certo punto è arrivato il Covid.

«È stata una doccia fredda. Nessuno si aspettava una pandemia. Siamo stati spiazzati: non sapevamo come approcciarci a questa nuova situazione. All’inizio anche solo mettersi la mascherina poteva creare un falso allarme, nessuno dava linee guide chiare, poi è stato un susseguirsi rapido di emergenze. Ricordo il primo problema: reperire mascherine, tute e guanti. Noi, per fortuna, grazie al presidente Marco Bologna siamo riusciti a recuperare molti presìdi. Ma all’inizio era davvero difficile lavorare e muoversi. Gli ospedali erano a tappo, e anche noi avevamo timore di portare a casa il virus. Il rischio c’era: eravamo in prima linea».

Ricordi uno dei tuoi primi servizi per il Covid?

«Siamo andati a prendere un signore anziano, faceva fatica a respirare. Con lui c’era anche la moglie, noi eravamo bardati dalla testa ai piedi, si vedevano solo gli occhi… la divisa classica di Croce Rossa non si intravedeva nemmeno. La donna, appena entriamo in casa, dice: “Non vedo la divisa, voi chi siete?”. Siamo rimasti spiazzati. Poi abbiamo preso l’uomo, rassicurando anche la moglie. Questo è stato un altro aspetto dei nostri servizi in pandemia: noi portavamo via le persone malate, ma chi rimaneva a casa non aveva la certezza di rivedere il proprio caro. Non potevamo dare una risposta certa, non potevamo creare false speranze, ma dovevamo dare conforto. Tante persone, purtroppo, entravano negli ospedali e sapevamo che non sarebbero più tornate a casa…».

Come riuscivate a gestire questo carico di lavoro?

«Non avevamo neanche il tempo di interrogarci su ciò che stava succedendo: guardavamo solo un trasporto alla volta. Finivamo il turno, che spesso durava più di otto ore, iniziavamo bardati e finivamo bardati. Quando eravamo tra di noi, cercavamo di non parlare del Covid. La paura c’era, ovvio, ma era sovrastata da questo pensiero: “Se non ci siamo noi ad aiutare la gente, chi va?”. Questa è la missione della Croce Rossa. E anche nella pandemia abbiamo lavorato così: se ci si fermava, si rischiava di pensare troppo. Con il pericolo di trasmettere paura e incertezza».

Oggi il Covid è finito?

«Bisogna stare attenti, ma penso che rimarrà come una sorta di influenza. Credo che nemmeno gli esperti lo sappiano… Noi indossiamo ancora adesso la mascherina, Covid o no. Dopo questa esperienza riteniamo giusto tutelare chi abbiamo di fronte: un paziente, qualsiasi cosa abbia, è molto più debole rispetto ai soccorritori che lo vanno a prendere».

Cosa significa per te fare questo lavoro?

«Secondo me è uno dei lavori più belli del mondo. È inspiegabile, e impagabile. È un dare e un avere. Vieni visto come un “angelo caduto dal cielo”, ma non lo sei, fai solo un trasporto. In molte situazioni mi accorgo che basta una stretta di mano, mentre si accompagna una persona anziana a una visita, e si fa la differenza. È inspiegabile, fino a quando non lo si prova. A fine turno anche solo ricevere un “grazie” diventa una cosa immensa. Oggi, per esempio, ho accompagnato una signora che andava in “day hospital”, e mi diceva: “Non trovo la forza per andare avanti”. Semplicemente mi ha chiesto un abbraccio. E quell’abbraccio ha fatto tanto, sia per lei sia per me. Ci siamo scambiate quella forza che a lei mancava. Fare questo lavoro con passione vuol dire entrare in empatia con chi si ha di fronte. Tante volte capita che viene a mancare un paziente che abbiamo trasportato e a cui siamo affezionati. E stiamo male, come se mancasse un amico o un parente».

Cosa diresti a chi volesse provare a entrare in Croce Rossa?

«Dico che devi avere sicuramente propensione all’ascolto, essere paziente e capire le varie situazioni. Devi venire a vedere e toccare con mano. Non si è mai soli, siamo una squadra enorme, si conoscono tante persone. E un turno alla fine vola, non pesa mai, anche quando ci sono situazioni delicate. Facendo la “Croce” si diventa sempre diversi, perché man mano si capiscono tante cose. Ci sono pazienti che ti insegnano, giorno dopo giorno: incontri persone che potrebbero gettare la spugna, per la loro salute, ma non mollano e hanno più forza di te. Allora cerchi di capire e migliorarti ogni giorno… anche questo è Croce Rossa».

Andrea Antonuccio

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