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La fede, educazione alla vita – L’editoriale di Andrea Antonuccio

Care lettrici,

cari lettori,

apriamo Voce con l’intervista di Zelia Pastore a Carlotta Testa, direttrice del Collegio Santa Chiara, che ci racconta i percorsi formativi proposti agli universitari ospitati in una struttura, quella del Collegio, che non è solo “un tetto e un letto”. Ma è un luogo in cui è possibile trovare qualcuno che ti aiuti ad affrontare le domande sul senso della vita. C’è uno scopo educativo più importante di questo, non solo con i giovani ma anche con gli adulti? Qualunque proposta si possa fare nei nostri ambiti, dalle parrocchie alle associazioni, dagli uffici pastorali alle consulte diocesane, se non ha l’orizzonte delle domande di significato non è una proposta veramente cristiana. È un surrogato, che in quanto tale annoia e non attrae. Solo chi vive veramente la grandezza e la bellezza della fede può fare una proposta all’altezza dei desideri più veri dell’essere umano. Solo chi è felice può parlare di felicità senza sentirsi a disagio; solo chi sperimenta la sovrabbondanza della fede può trasmetterla senza fare prediche; solo chi è amato veramente può amare con gratuità; solo chi è educato alla libertà può educare con libertà; solo chi è attratto da qualcosa di grande può attrarre gli altri senza farli suoi. Per questo il problema dell’educazione riguarda innanzitutto gli educatori: a maggior ragione, per l’educazione alla fede. Perché la fede è qualcosa che, paradossalmente, non perdona: o è vissuta al 100%, oppure è una schifezza. Non sopporta mezze misure: se non investe l’intera esistenza, dalle domande esistenziali fino alla quotidianità più spicciola, è un brodino allungato per tiepidi pronti a essere vomitati (lo dice l’Apocalisse, mica il sottoscritto). La fede è per gente che vuole vivere con maggiore profondità e gusto della vita. L’essere umano innamorato di Cristo è attraente sempre, anche quando respira. Se invece ha bisogno di inventarsi qualcosa per portare gente a Messa, o per coinvolgere i ragazzi del post-cresima (cito solo due delle più frequenti lamentazioni dei nostri ambienti) ha un problema grosso: non è più cristiano. Non dal punto di vista dell’ortodossia, ma dal punto di vista dell’umanità, cioè della possibilità che Cristo, morto e risorto, sia la vera risurrezione della propria vita. Il cristiano vive meglio perché gode del centuplo quaggiù, non perché è più devoto. I “tristoni”, al contrario, si perdono il bello della fede. E non se ne accorgono neanche, perché hanno rinunciato al desiderio di essere felici. La peggior disgrazia che ci possa capitare.

Andrea Antonucciodirettore@lavocealessandrina.it

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