Intervista al nostro Vescovo monsignor Guido Gallese sulle Festività
Eccellenza, come sarà il suo Natale?
«Eh, ha una “partenza” lunga (sorride), perché inizia sempre dagli auguri di Natale con le associazioni di categoria in Vescovado: un’esperienza bellissima, veramente arricchente. Prendo contatto con la realtà di un anno intero, con persone che hanno vissuto gioie, difficoltà, sfide, e così mi rendo conto di come vanno concretamente le cose nel nostro territorio. Sono giorni molto intensi, in cui c’è un “fil rouge” che mi accompagna: la preghiera liturgica, che mi tiene sul sentiero della preparazione al Natale, in mezzo a tutta questa serie di impegni. Essenzialmente, per me il Natale è chiedermi: “Ma Gesù che ci sta a fare? Perché è venuto?”».
Allora chiediamocelo anche noi: Gesù perché è venuto?
«Una prima risposta a questa domanda potrebbe essere: “È venuto a richiamarci a essere buoni”. A Natale sono tutti buoni, no? È un motto che è sempre andato per la maggiore nel mondo civile: il modo più “laico” di recepire il Natale è questo. In realtà, è una risposta molto immediata che rivela però la sua insufficienza. Gesù non è venuto a mettere ordine nelle cose di questo mondo. Qualcuno potrebbe dire: “Ma forse voleva che lo facessimo noi!”. Beh, sicuramente vuole che facciamo e portiamo il bene. Ma quale bene? Qualcun altro potrebbe dire che Lui ce lo ha indicato: dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, visitare i malati e i carcerati, e così via. È il metro con cui verremo giudicati alla fine dei tempi. Ed è vero. Però, la cosa più sconcertante di tutte è che quando Gesù parla di queste cose e ti spiega che devi fare in questo modo, finisce per dirti nel Vangelo: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Gesù viene a identificarsi con i poveri, con i bisognosi, e il suo giudizio è sul fatto che quelle cose le abbiamo fatte a Lui».
Però gli dicono anche: «Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare?». Che cosa significa?
«Gesù non ha risposto: “Bravi, andate in Paradiso perché avete fatto queste cose a questa gente”. Ha detto: “Lo avete fatto a me”. E adesso noi lo sappiamo, abbiamo una prospettiva. O almeno, dovremmo averla. Ma spesso accade che facciamo delle cose, sicuramente buone, e non ne comprendiamo bene il motivo. Pensiamo di doverle fare perché è giusto così, per una questione di giustizia, per generosità verso i nostri fratelli più bisognosi. Ma Gesù, invece, riporta la questione a Sé. Ed è come se ci dicesse: “Quel bisognoso sono io: quando avete fatto queste cose, le avete fatte a me”. Come se farle a Lui fosse più importante».
Ma è sufficiente che io, facendo la carità a qualcuno, dica che la sto facendo a Gesù?
«Per farla a Lui lo devi conoscere, gli devi voler bene. Altrimenti, la fai a Lui ma non lo sai. Questo è il punto».
Non è un moralismo dire: “Do una monetina al povero uscendo dalla chiesa, quindi l’ho data a Gesù”?
«Può essere. Ma noi desideriamo veramente Gesù? Ci commuove la Sua presenza nell’altro, nel povero, in chi abbiamo di fronte? Per dare qualcosa a qualcuno che sta peggio di noi non c’è bisogno della fede: basta la filantropia, che ha un suo senso e delle ragioni ben fondate».
Ma lei non pensa che il Signore salvi anche quell’impeto filantropico?
«Io non dico che non lo salva, ma dico che non è quello che Gesù ci chiede. Il Signore riporta a sé questo tema dell’amore fraterno, facendolo diventare teologale, cioè virtù che ha come fine Dio».
Tutto questo che cosa c’entra col Natale?
«C’entra, perché Gesù nascendo è venuto a dirci delle cose che ci spiazzano e per certi versi “sradicano” il nostro modo di pensare. È venuto a parlarci di questioni che non ci sono immediatamente chiare. E chiedono un grande sforzo per essere comprese».
Che tipo di sforzo è necessario?
«C’è bisogno di silenzio. Abbiamo realizzato il percorso giubilare in Cattedrale per dare a ognuno la possibilità, in questa vita frenetica, di fermarsi. Per riflettere su di sé con calma e profondità, con l’aiuto delle prospettive che Gesù ci dà, e mettersi nella verità di fronte a Dio. Cosa per la quale di solito non troviamo il tempo».
Cosa intende con “mettersi nella verità di fronte a Dio”?
«Intendo dire che spesso il nostro rapporto con Dio magari lo sbrighiamo con alcune preghiere e un po’ di carità. Riduciamo il cristianesimo a delle “regolette” che poi applichiamo. Così ce la cantiamo e ce la suoniamo: l’opposto del mettersi nella verità di fronte a Dio».
Però così ci è stato insegnato.
«È vero, noi pastori, con lo scopo di semplificare le cose, talvolta abbiamo dato insegnamenti imprecisi o addirittura errati: abbiamo costruito un cristianesimo basato sulle opere, e le regole sono quelle che dicono quali opere devi fare e quali no. Anche con le migliori intenzioni, non appena fai un proposito rischi di scivolare. Il tuo proposito ha lo scopo di renderti più fedele al Signore? Ecco, in un attimo quel proposito può diventare una regola sulla quale mi confronto per vedere se lo faccio o non lo faccio. Da lì viene fuori il moralismo».
Come faccio a rimettermi “in bolla”, allora?
«Devo avere dei momenti di vero silenzio in cui mi metto nella verità davanti a Dio e dire: “Ma chi sono io?” e non: “Cosa devo fare per seguire Dio?”. Cambia la domanda: “Chi sono io? Cosa sto cercando? Che scopo ha, concretamente, la mia vita?”».
Il percorso giubilare allestito in Cattedrale ci può aiutare a cambiare la domanda?
«È iniziato un nuovo anno liturgico, una vita nuova. Possiamo ripercorrere il cammino del Signore, dall’inizio, per farci aiutare da lui a cambiare le nostre domande».
Eccellenza, però rimettersi in discussione da soli è quasi impossibile.
«Lo so bene, per me è una fatica terribile…».
Il silenzio di cui parla lei è il silenzio di uno che sta davanti a qualcuno, lo guarda e lo ascolta.
«È uno spazio che puoi trovare nella tua vita. Basta decidere di prendere un’ora della propria giornata ed entrare in una chiesa».
Anche lo Yoga predica il silenzio…
«Ma non è la stessa cosa. Lo Yoga serve per rientrare in noi stessi, mentre il nostro silenzio è alla ricerca di una relazione con uno che ha detto: “Ogni volta che avete fatto una di queste cose a questi miei fratelli l’avete fatta a me”. L’accento non è sulla cosa che fai, ma sulla relazione con Lui. Il nostro silenzio è per rimettere in marcia una relazione, quella con Dio».
Faccio il percorso, rimango colpito, nascono delle domande. E poi? Cosa faccio, telefono al Vescovo?
«Puoi cercare una comunità. Vai nella tua unità pastorale e chiedi: “C’è un gruppo di persone che sono perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane, nelle preghiere?”. Devi trovare qualcuno che fa queste quattro cose insieme: nelle parrocchie, nelle associazioni o nei movimenti».
A me però sembra che in alcuni ambiti ci siano tutte queste quattro cose, ma non la comunità.
«Tu prima mi fai vedere chi sono quelli che fanno queste quattro cose e non sono comunità. Poi, quando me le hai fatte vedere, ne parliamo. Perché stai parlando del vuoto, altrimenti. Portami delle persone che sono perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane, nelle preghiere e dimostrami che non sono una comunità».
Ne riparleremo. Altri suggerimenti?
«Vorrei fare un invito: la vigilia di Natale, il 24 dicembre, alle 10.30 in Cattedrale accompagnerò chi lo vorrà all’interno del percorso giubilare. Un’opportunità aperta a tutti, senza prenotazione (sorride). Per vivere questo momento in modo più vero. Vi aspetto!».