USTICA 45 anni dopo: «Su quell’aereo ho perso i miei genitori»

Intervista esclusiva di Alessandro Venticinque a Elisabetta Lachina, figlia di due vittime del disastro

 

27 giugno 1980: alle 20.59 il volo di linea IH870 della compagnia aerea Itavia, partito dall’aeroporto di Bologna e diretto all’aeroporto di Palermo, precipita nel mar Tirreno meridionale, nel tratto compreso tra le isole italiane di Ponza e Ustica. 81 morti. Abbiamo intervistato Elisabetta, figlia di due delle vittime. Per raccontare la sua storia.

Giulia Reina e Giuseppe Lachina erano una coppia di sposi, con quattro figli e una vita da vivere. Avevano 50 e 57 anni quel 27 giugno 1980, quando la loro storia ha incrociato una delle pagine più buie del nostro Paese: la strage di Ustica. Giulia e Giuseppe, infatti, sono due delle 81 vittime a bordo dell’aereo Dc-9 della compagnia Itavia che, in volo da Bologna a Palermo, precipitò nei pressi dell’isola siciliana. I resti di quel velivolo sono raccolti a Bologna, nel Museo per la Memoria di Ustica. E le vittime della strage sono ricordate, grazie all’opera di Christian Boltanski, attraverso altrettante luci che, dal soffitto del Museo, si accendono e si spengono al ritmo di un respiro. In quel respiro ci sono anche loro, Giulia e Giuseppe, genitori di Elisabetta Lachina, che all’epoca dei fatti aveva 18 anni. E oggi, a distanza di 45 anni, Elisabetta ricorda e rivive con noi di Voce quei drammatici momenti che le hanno stravolto la vita. Continuando a cercare, se possibile, la verità e la pace.

Elisabetta, se dovesse parlare dei suoi genitori cosa direbbe?

«I miei genitori erano due persone semplici, eravamo una famiglia come tante in Italia. Originari della Sicilia, papà e mamma sono saliti al Nord in cerca di fortuna, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Durante il conflitto mio padre era marinaio, imbarcato sulla Conte di Cavour. Finita la guerra, tornò a casa da Trieste, a piedi, fino a Caltanissetta. Non amava parlare di quella esperienza, e quando glielo chiedevamo le lacrime inondavano i suoi occhi.
E diceva: “Quanta morte, quanta miseria nell’uomo, non auguro a nessuno di vedere quello che ho visto”».

Dalla Sicilia al Nord.

«Nei primi mesi del 1955 mio papà è partito da solo per Genova, dove abita suo cognato, e si inventa un lavoro, il “fotografo da strada”. Dopo lo raggiunge anche mia mamma, con Ivano, il fratello più grande. E a dicembre nasce anche Riccardo. Poi si trasferiscono a Montegrotto Terme, in provincia di Padova, il bacino termale più grande d’Europa: lì siamo nate io e mia sorella Linda. Mio padre era il fotografo ufficiale degli alberghi delle terme, un posto molto frequentato da turisti che venivano per curarsi: un uomo che si è fatto da solo, un piccolo genio, autodidatta in tutto. Faceva esperimenti e li condivideva con tutti. Non si fermava all’apparenza, riusciva a leggere l’anima delle persone. A 12 anni mi ha insegnato a fare le fotografie».

Cosa le ha insegnato?

«Prima di iniziare a scattare fotografie ai turisti, mi ha insegnato a osservare le persone. Mi ha portato con lui negli hotel, per tre o quattro volte, chiedendomi di guardare le persone. Ho imparato a osservare i dettagli, dal modo di camminare all’espressione del viso, fino agli occhi e alle scarpe… diceva che dalle scarpe di una persona si può capire molto. Così, ho iniziato anche io a fotografare»

Sua madre, invece?

«Era molto dolce, dedita alla famiglia. Era il braccio destro di mio padre, sempre al suo fianco. Ci ha accuditi con tanto amore: era sempre presente, sorridente, pronta a scherzare, ma anche lei sapeva arrabbiarsi (sorride). Mi ha insegnato l’amore, la pazienza, e a sorridere anche quando si è tristi».

Fino alla sera del 27 giugno 1980.

«Bisogna fare un passo indietro. Ogni mattina, mio padre telefonava in Sicilia, chiamava sua madre e le dava del voi: “Vossìa, cosa mi raccontate?”. Quella mattina lei rispose: “Sai, Pino, c’è qui tuo cugino dall’America, vuole vederti”. Mio padre decise allora di partire subito per la Sicilia, per incontrarlo. Dice a mia madre: “Fai le valigie, partiamo”. Quel viaggio era in programma più avanti, con tutta la famiglia, come regalo per mia sorella. Mia madre non era d’accordo, non se la sentiva di partire, ma lui insistette. Mia sorella si arrabbiò molto, si chiuse in camera e non li salutò nemmeno. Ricordo che mia madre chiamò un’amica, dicendo: “Elena, se mi succede qualcosa, pensa ai miei figli” (si ferma). Andarono all’aeroporto di Bologna, pur senza il biglietto. Alle 17 mi telefonarono dicendo che non c’era posto, ma che qualcuno avrebbe potuto rinunciare e loro avrebbero preso quei posti».

Li presero, quei posti.

«Sì, due persone consegnarono ai miei genitori i loro posti. Arrivati a Palermo, avrebbero dovuto chiamarmi per aggiornarmi. Ma il telefono non squillava. Alle 23 mi telefonò mia zia Cosima: “Sono partiti?”. Le spiego che non c’era posto e che mi avrebbero avvertita appena atterrati. Dopo due minuti mi richiama, urlando, di accendere la tv. L’accendo, ma non c’era nulla. Allora la richiamo e mi dice, urlando: “L’aereo è scomparso, ha tre ore di autonomia. È quello partito da Bologna”. Cercai di tranquillizzarla, ma mi resi conto che stava iniziando un incubo».

Cosa accadde dopo?

«Chiamai l’aeroporto di Bologna, poi quello di Palermo, ma nessuno rispondeva. Telefonai anche ai Carabinieri, ma non sapevano cosa dirmi. Volevo capire se i miei genitori erano davvero su quell’aereo. Intanto, le ore di autonomia stavano scadendo. Mia sorella, accanto a me, era terrorizzata. Faceva domande, ma non avevo risposte da darle. Aveva gli occhi sbarrati. Poi, verso l’una, arrivò mio fratello Riccardo: decise di andare a Bologna per vedere se la macchina era nel parcheggio. Qualche ora dopo, chiama: “Elisa, la macchina è nel parcheggio, torno a casa”. Quella notte fu interminabile, aspettavamo la loro telefonata che non arrivò mai. Ci sedemmo tutti e tre in silenzio, nella sala da pranzo».

Quando avete appreso la notizia?

«La mattina, alle 7, mostrarono le immagini dei cadaveri che galleggiavano in mare. Guardavo attentamente, cercando di riconoscere mamma e papà. Era chiaro che cos’era successo, ma non volevamo crederci. Raccontai a Linda che papà era marinaio e sapeva nuotare, e avrebbe salvato la mamma. Cercavo di proteggerla. Poi Riccardo si organizzò per andare a Palermo, perché dissero che lì avrebbero portato i primi cadaveri. Riuscimmo a contattare anche Ivano, che era in vacanza con la famiglia, in Puglia. Così andò anche lui. Mia sorella smise di parlare per giorni e giorni. E io mi ritrovai a 18 anni a gestire una situazione inimmaginabile… Il telefono di casa continuava a squillare, prima i giornalisti che cercavano notizie e poi le autorità. Chiedevano dei segni particolari per riconoscere i corpi dei nostri genitori».

Come trovarono i suoi genitori?

«Spiegai che mio padre aveva perso tre falangi della mano sinistra, e questo fu utile per identificare il suo corpo. O quello che ne restava… Mia madre, invece, non si trovava. Continuavano a chiedermi che vestito indossava. Poi, grazie ad alcuni reperti anatomici, riuscirono a individuarla. Quello che rimase della mia bellissima e dolcissima mamma erano 80 grammi di resti, a cui era attaccato un pezzo di stoffa. Le diedero il nome di “reperto C” (si ferma)».

Si è mai chiesta perché sia capitato alla sua famiglia?

«Tutti prendiamo l’aereo per andare in vacanza, per visitare parenti o per lavoro. Poteva succedere a chiunque di noi, chiunque avrebbe potuto essere su quel volo. Le cose si capiscono solo quando le vivi sulla tua pelle. Sa, non ho mai pianto per la morte dei miei genitori… Quella sera non potevo disperarmi, dovevo dare serenità a mia sorella. E non l’ho potuto fare né nei giorni seguenti, né ai funerali. Mi sarei persa nel dolore e avrei spaventato ancora di più mia sorella».

Fino a quando è riuscita a non piangere?

«Fino al 2006, quando, con 18 tir, portarono i pezzi restanti del Dc-9. Siamo andati tutti ad accoglierli, a Bologna. Quando ho visto il primo tir con lo scheletro dell’aereo, ho rivissuto tutto quello che era successo: le telefonate, le urla, il silenzio, la paura, il terrore, l’abbandono. Ho iniziato a piangere per la prima volta, come se tutti i cassettini si fossero aperti di colpo. Come una diga che rompe gli argini. Avevo 45 anni, ne erano passati 26 dalla morte dei miei genitori».

Si può fare pace con questa ferita?

«Nessuno di noi ha fatto pace con questa ferita. Siamo ancora fermi al 27 giugno 1980. E sono passati 45 anni. Siamo sempre rimasti in attesa: le prime notizie, i corpi, le indagini, i processi. Un continuo attendere, lottare, per sapere e capire cosa fosse successo. È stata come la tortura della goccia cinese, ha presente? Una parte della verità l’abbiamo conquistata con la sentenza del 2011 (il Tribunale di Palermo stabilì che lo Stato italiano era responsabile della morte delle 81 vittime, poiché il cielo di Ustica non era adeguatamente controllato dai radar, mettendo a rischio la sicurezza del volo e ammettendo la validità della tesi del missile, ndr). Poi siamo riusciti a far scrivere nero su bianco da un giudice monocratico della Repubblica Italiana che quella sera ci fu una guerra aerea non dichiarata. Il Dc-9 si trovò coinvolto a sua insaputa. Sono stati uccisi 81 cittadini italiani, in una guerra che nessuno conosceva. Ma ai “piani alti” sicuramente sapevano».

La Procura di Roma, 45 anni dopo, ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta su Ustica. Cosa prova?

«È una questione di dignità nazionale. Abbiamo la testimonianza dell’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, data sotto giuramento e agli atti nel processo civile contro il Ministero dei Trasporti e della Difesa, in cui accusa la Francia. L’anno scorso, Giuliano Amato (allora ministro dell’Interno, ndr) ha mosso gravi accuse contro la Francia, ma nessuno ha dato risposte precise e il nostro governo non è riuscito a farsi rispettare. Mi chiedo: se l’aereo di quella sera fosse stato francese, e con 81 passeggeri francesi, la Francia avrebbe accettato il silenzio dell’Italia?».

Qualche mese fa, ad Adnkronos, l’ex ministro Carlo Giovanardi ha dichiarato: “Basta fantascienza, l’aereo è saltato in aria per l’esplosione di una bomba”.

«Sarò onesta, all’inizio di questo incubo e successivamente mi sono documentata anche sulla tesi della bomba, sono stata anche a un convegno. Da parte mia era giusto capire e valutare ogni aspetto: mi sono letta tutte, e dico tutte, le perizie e la documentazione possibile. Ma da qualsiasi parte la si veda, non c’è traccia di nessuna bomba a bordo di quell’aereo».

Quale giustizia cerca, oggi?

«Come le dicevo, noi una parte di verità l’abbiamo conquistata con la sentenza ordinanza del giudice Priore nel 1999, confermando che attorno al Dc-9 c’erano aerei militari italiani e di nazioni alleate. Poi c’è la sentenza del giudice Proto Pisani del 2011, in cui si condannano in sede civile i ministeri italiani della Difesa e dei Trasporti per non aver tutelato quel volo in modo sufficiente da prevenire il disastro. Chi scrive la Storia sono sempre i vincitori, ma qui non ci sono né vincitori né vinti. In questa storia c’è l’Italia, una nazione intera che ha perso la propria dignità. Abbiamo permesso che venissero uccisi 81 civili italiani, in una guerra non dichiarata».

Una giustizia personale?

«Non porto odio nel mio cuore, né per chi ha mentito, né per chi ha taciuto. Sono semplicemente disgustata, e vorrei aggiungere questo…».

Prego.

«Se 45 anni fa ci avessero detto: “Volevamo uccidere Gheddafi, c’è stata una guerra e l’effetto collaterale è stato il Dc-9. Ci spiace per le 81 vittime” ecco, forse l’avremmo accettato. Ce ne saremmo fatti una ragione. Mi sarebbero mancati i miei genitori, certo, ma non avremmo dovuto lottare e faticare tutti questi anni, andandoci a scontrare con quel “muro di gomma” fatto di menzogne e depistaggi. Per arrivare a cosa? Aspettare la verità ci ha logorati. Ci ha distrutto l’anima».

Ha perdonato i responsabili di quella strage?

«Come faccio a perdonare? Non sono io a dover perdonare. Non provo odio o disprezzo, non auguro niente di male a chi quella sera era in volo. Hanno eseguito degli ordini. Ma non ho neanche rabbia nei confronti di chi ha visto e ha taciuto. Forse, se fossi stata minacciata per la mia vita o quella dei miei familiari avrei fatto lo stesso anch’io, come loro».

Che cosa vede negli occhi degli altri familiari delle vittime?

«Ogni 27 giugno vado a Bologna, mi confronto. Gli anni passano, siamo invecchiati ma uniti da un filo invisibile che ci sostiene a vicenda. Quello che non manca mai è il signor Diodato, che ha perso cinque familiari a Ustica. Lo abbraccio con grande affetto: ha il suo bastone per camminare, è piegato in avanti come se portasse il peso del dolore di tutti questi anni, il suo cuore è colmo di una grande sofferenza. È stanco, ma c’è sempre».

La sua storia è anche all’interno di uno spettacolo teatrale sui cosiddetti “anni di piombo”. I giovani conoscono quel periodo?

«I giovani non conoscono gli anni di piombo e le stragi, non sanno cosa voleva dire andare in banca o viaggiare in treno e venire uccisi da una bomba. Il professore Davide Spagnesi ha unito la musica abbinata a quegli anni in uno spettacolo teatrale. È giusto che i giovani conoscano la nostra storia, anche le parti più brutte. Ma finché possono, vivano la loro età con spensieratezza».

Si è mai arrabbiata con Dio per quanto successo?

«Sono sincera, non ho la fortuna di avere il dono della fede, anche se lo vorrei… Ma ogni tanto vado in chiesa e chiedo a Dio di dare la salute a tutte le persone che amo, mi porto a casa un lumino e lo accendo».

Ha rimpianti?

«Sì, ho trascinato mia figlia dentro al dramma facendole respirare ogni giorno questa strage. È anche lei è una vittima di Ustica».

Se potesse rivedere i suoi genitori, 45 anni dopo?

«(si ferma) Se li avessi qui davanti, forse sorriderei e gli farei una dolce carezza… Sì, farei così, anche se potessi farlo soltanto con gli occhi».

LE DATE

 

27 giugno 1980. Il volo Itavia IH870, partito da Bologna e diretto a Palermo, scompare improvvisamente dai radar alle ore 20.59 mentre sorvola il Mar Tirreno, in un tratto di cielo compreso tra le isole di Ponza e Ustica. Il DC-9 precipita in mare, trascinando con sé le vite di 81 persone, di cui 13 bambini e quattro membri dell’equipaggio. La tragedia si consuma in appena un minuto e mezzo. È l’inizio di uno dei più gravi e oscuri misteri della storia della Repubblica italiana.

18 luglio 1980. Un aereo militare libico, un Mig-23, viene ritrovato sulle montagne della Sila, in Calabria. È un evento che alimenta i sospetti su una possibile operazione militare nei cieli italiani la sera della tragedia del DC-9.

20 dicembre 1980. Lo Stato Maggiore dell’Aeronautica trasmette una nota ufficiale al Governo e alla Magistratura, dichiarando che l’incidente al DC-9 è avvenuto in una zona priva di traffico aereo e senza tracce di esplosione o collisione. L’unica ipotesi ammessa è quella di un cedimento strutturale. 

28 febbraio 1988. Nasce l’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica. A presiederla è Daria Bonfietti, sorella di una delle vittime.

16 marzo 1989. Il primo rapporto peritale, redatto dal professor Blasi, giunge a una conclusione clamorosa: il DC-9 fu colpito da un missile, non da una bomba. 

23 luglio 1990. Il giudice Rosario Priore assume la guida dell’inchiesta.

15 gennaio 1992. Il giudice Priore incrimina 13 alti ufficiali dell’Aeronautica Militare per depistaggio e attentato contro gli organi costituzionali. Per la prima volta, la magistratura riconosce un’azione deliberata volta a ostacolare la verità.

31 agosto 1999. Dopo anni di istruttoria, Priore firma la sua ordinanza-sentenza: il DC-9 fu abbattuto da un missile, verosimilmente nel corso di un’operazione militare che coinvolgeva caccia stranieri, nel contesto di un duello aereo nei cieli italiani. 

La versione di Cossiga (2002-2008). Nel 2002, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga abbandona la versione della bomba a bordo e afferma che fu un missile straniero ad abbattere l’aereo. Nel febbraio 2008, va oltre: accusa la Francia di aver lanciato un missile a risonanza destinato a un aereo libico, ma che finì per colpire il DC-9.

15 dicembre 2005. La Corte d’Assise di Roma assolve gli alti ufficiali dell’Aeronautica accusati di depistaggio. Le accuse sono ritenute prescritte o non sufficientemente provate. Sul piano penale, la responsabilità resta senza colpevoli.

27 giugno 2007. Viene inaugurato a Bologna il Museo per la Memoria di Ustica. Al suo interno, i resti ricostruiti dell’aereo vengono esposti con un’installazione dell’artista francese Christian Boltanski.

10 settembre 2011. Il Tribunale civile di Palermo condanna i ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire oltre 100 milioni di euro ai familiari delle vittime. Lo Stato italiano viene ritenuto civilmente responsabile.

28 gennaio 2013. La Corte di Cassazione conferma in via definitiva la sentenza. Per la giustizia civile italiana, il DC-9 fu abbattuto da un missile in un contesto bellico non dichiarato. L’incidente non fu tecnico: fu un atto ostile. La verità giudiziaria, seppur non penale, è stabilita.

5 marzo 2025. La Procura di Roma avanza la proposta di archiviazione definitiva del caso, sostenendo l’impossibilità di identificare gli esecutori materiali dell’attacco.

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