Parla Bruno D’Alfonso, figlio del carabiniere ucciso il 5 giugno del 1975 dalle Brigate Rosse: “Avevo 10 anni, era il mio supereroe”

«Mio papà Giovanni non tornerà in vita, però rimane il ricordo, i valori e

quello che ho cercato di fare: raggiungere la verità per rendere giustizia a lui» 

 

Sono trascorsi 50 anni dalla morte di Giovanni D’Alfonso (nella foto di copertina), l’appuntato dei Carabinieri ucciso il 5 giugno del 1975 in un conflitto a fuoco con le Brigate Rosse. Teatro degli scontri: cascina Spiotta d’Arzello, vicino ad Acqui Terme (Alessandria), luogo dove le Br tenevano nascosto l’imprenditore vinicolo Vittorio Vallarino Gancia, dopo averlo sequestrato. E lì, una pattuglia dei Carabinieri individuò il covo e preparò l’intervento. A morire, oltre al carabiniere D’Alfonso, anche la brigatista Mara Cagol, moglie di Renato Curcio, uno dei fondatori delle Br. La famiglia D’Alfonso, in particolare uno dei tre figli, Bruno, che oggi ha 60 anni, ha lottato per dare un nome e un volto al brigatista sfuggito alla cattura e mai identificato. E adesso, mezzo secolo dopo, nel processo che si sta svolgendo davanti alla Corte d’Assise del tribunale di Alessandria la verità sembra vicina.

Bruno, ci può parlare di suo padre?

«Papà era il mio punto di riferimento, un supereroe. Avevo 10 anni e mezzo, ero affascinato dal suo lavoro, dalla divisa, dalla sua sicurezza. Era una persona molto dinamica, allegra, a cui piaceva stare tra la gente, rendersi utile e disponibile. Era orgoglioso del suo lavoro, ma soprattutto della sua famiglia. Ci stava sempre vicino: non che sia stato il preferito, voleva bene a tutti e tre, ma essendo maschio mi portava dentro le caserme, mi faceva sedere vicino a lui e stavo alla macchina da scrivere. Mi rendeva sempre partecipe. E poi ci teneva che studiassimo: ricordo che accompagnava Cinzia, la più grande, in biblioteca per farla leggere. A me portava a fare sport, nuoto e judo. C’era un rapporto bellissimo, con tutti».

Quando entra nell’arma dei Carabinieri?

«Papà era arrivato fino alla quarta superiore, e per gli Anni 30 era una rarità. In quel periodo, nell’Arma con la quinta elementare potevi fare il sottufficiale. Lui non aveva finito le superiori, e a 18 anni, all’epoca si era ancora minorenni, si fece accompagnare dalla mamma per arruolarsi nei Carabinieri. Così, ha iniziato a fare questo lavoro».

Come arriva ad Acqui Terme?

«Prima di arrivare in Piemonte, succede un brutto guaio. Eravamo a Mosciano Sant’Angelo, in provincia di Teramo, e mio papà ha avuto un diverbio con il suo comandante di stazione. Una sera erano intervenuti in una rissa, e il maresciallo è stato deriso da alcuni partecipanti, che dissero di avere rispetto solo per D’Alfonso. E così è stato trasferito in Piemonte. Ma lui era comunque contento, voleva cambiare aria, conoscere persone e posti nuovi. Anche se Acqui Terme già la conosceva…».

Perché?

«Veniva lì per le cure termali. Aveva avuto un incidente e andava ad Acqui per fare i fanghi nelle terme militari. E c’era anche una coppia di corregionali che abitava in quella cittadina. Prima è stato trasferito a Garessio, in provincia di Cuneo, dove è stato per qualche mese. E, di seguito, ha scelto di trasferirsi ad Acqui proprio nel maggio del 1975. Non vedeva l’ora che arrivassimo anche noi, per farci studiare lì. Aveva trovato l’alloggio e un lavoro per mia mamma, che era sarta. Poi purtroppo…».

Arriva quel 5 giugno.

«Mio papà aveva preso servizio poche settimane prima del sequestro dell’industriale Vallarino Gancia, a Canelli. Qualche giorno prima del tragico evento, era andato a donare il sangue e aveva diritto a qualche turno di riposo. Ma gli è stato rifiutato. Quel 5 giugno era di servizio in caserma fino alle 12, e alcune ore prima viene chiamato per far parte della pattuglia che è intervenuta alla Cascina Spiotta».

In quell’azione complicata, a un certo punto suo padre rimane da solo.

«Papà, nonostante le ferite, ha provato a impedire la fuga di Mara Cagol e dell’altro terrorista. Ma terminati i colpi della sua pistola, è stato raggiunto da uno dei due brigatisti che gli ha sparato in fronte. Il colpo non è stato mortale, perché il proiettile è uscito dal collo… Papà è sopravvissuto qualche giorno, in ospedale, prima di morire. Poi, secondo le ricostruzioni, l’altro terrorista è riuscito a scappare. Mentre Mara Cagol, ferita e con le braccia alzate, è stata colpita a morte dall’unico carabiniere rimasto».

Cosa ricorda di quei momenti?

«Ricordo tutto. Noi abitavamo in un appartamento sopra la caserma di Mosciano Sant’Angelo. Il maresciallo, quello che aveva avuto il diverbio con papà, non ci ha avvisato e di conseguenza siamo arrivati alle 13.30 a tavola, con la tv accesa. Io sono rimasto solo davanti al telegiornale e ho appreso la notizia del conflitto a fuoco. Ho sentito il giornalista dire: “Rodolfo D’Alfonso”, avevano sbagliato nome… Speravo fosse un errore, ma ho detto a mia mamma e alle sorelle: “Ha lo stesso cognome di papà, il nome è diverso. Ma il posto è lo stesso dove fa servizio lui”. Io sono subito uscito, avevo capito che c’era qualcosa di grave. Tornato, la casa era piena di gente: mia mamma in lacrime e mia sorella in collegamento con Alessandria».

Cosa è successo dopo?

«Si deve crescere in fretta. Ogni giorno penso a quella storia. E alle promesse che avevo fatto a mio padre: cercare il responsabile di quei fatti. Un lutto ce l’abbiamo tutti, in famiglia, ed è bruttissimo. Ma la modalità della morte violenta non è facile da affrontare. Quando incontro altri familiari delle vittime di terrorismo, tra noi ci chiamiamo confratelli. Perché riusciamo a condividere questo dolore che abbiamo perennemente, e ci capiamo».

Oggi, 50 anni dopo, il secondo terrorista è stato individuato nel nome di Lauro Azzolini, che a processo ha ammesso: «C’ero io quel giorno di 50 anni fa alla Spiotta».

«Io sono sempre stato in contatto con il tenente Rocca, comandante di quell’azione per liberare Vallarino Gancia. È rimasto in vita fino allo scorso anno, e ogni volta che gli parlavo notavo in lui una ritrosia a non dirmi le cose come stavano. Sì, mi aveva fatto il nome di Azzolini, ma diceva di non essere sicuro».

Cosa non tornava nel racconto di Rocca?

«Intanto, per mio padre avevano proposto la medaglia d’oro, anche se poi hanno dato a Rocca quella d’oro e a mio padre, che era morto, quella d’argento. Questa ennesima ingiustizia ha sollevato molti dubbi: mi sono chiesto se mio papà si fosse davvero comportato bene in quell’occasione. Ma negli anni ho scoperto il contrario».

Ovvero?

«Dal processo è emersa una cosa inaudita. Il tenente Rocca era stato informato del posto dove era detenuto Gancia e la sera prima, il 4 giugno, aveva fatto effettuare un sopralluogo dai suoi uomini lì, alla Cascina Spiotta. Il giorno successivo, la spedizione è stata rinviata nel pomeriggio, perché gli uomini di Dalla Chiesa dovevano essere premiati per le azioni degli anni precedenti nella mattinata del 5 giugno a Torino. Sarebbero dovuti tornare al pomeriggio, ma il tenente Rocca ha accelerato facendo un’operazione avventata. Mio padre avrebbe dovuto finire il servizio un’ora prima, ma è successo quello che è successo. Così Rocca, al posto di subire conseguenze penali, viene decorato con la medaglia d’oro. Mio padre è rimasto lì da solo, mentre Rocca e Cattafi sono fuggiti, non aveva più colpi nella sua Beretta. Come ho spiegato prima, è stato colpito alla spalla, trafitto in un polmone, e poi è stato colpito ancora dall’altro brigatista».

Cosa prova nei confronti di Azzolini?

«Cosa devo provare? (si ferma) Oggi mio padre poteva avere la sua età e poteva vivere ancora. Ferito in quel modo, è morto dopo sei giorni di agonia. Non posso che provare brutti sentimenti nei suoi confronti, quando è entrato in aula ho provato a non guardarlo. E sono scoppiato a piangere».

Al processo Azzolini ha dichiarato: «A 82 anni compiuti mi trovo costretto a ricordare pubblicamente un fatto terribile, a cui ogni tanto ripenso e che mi provoca dolore». Si è pentito, secondo lei?

«No, sta facendo solo della confusione, addossando colpe agli altri».

Azzolini è accusato insieme ai due ex capi storici delle br, Mario Moretti e Renato Curcio. Come andrà a finire?

«Ci sarà una condanna, ma non mi aspetto molto. Per me è una questione di onore, nei confronti di papà. Glielo dovevo per quello che ha fatto, ed è giusto nei confronti di tutti i cittadini italiani: la giustizia deve sempre emergere».

Crede ancora nella giustizia?

«Credo nella giustizia, ma non sempre la si può ottenere. Se una cosa del genere fosse successa oggi, sarebbe andata diversamente. C’erano altri rapporti con l’opinione pubblica e metodi investigativi diversi».

Ci sono stati errori?

«Sono convinto che ci siano stati degli errori madornali da parte degli operatori dell’epoca, e le istituzioni hanno agito nella modalità opportuna per proteggere il nome dell’arma dei Carabinieri e di chi ha agito. Errori gravi, fatti da soggetti particolari, che non mi fanno perdonare».

Lei a processo ha fatto anche il nome del generale Dalla Chiesa. Perché?

«Sì, l’ho detto sotto giuramento, in sede di testimonianza, ed è una circostanza vera, che ho appurato con un testimone. Il 6 marzo del 2009, ad Asti, ho incontrato Vittorio Vallarino Gancia, nella sala riunioni della Camera di commercio. Parlando di quel conflitto mi ha riferito alcuni particolari. Per esempio, quando lui è stato liberato, mio padre era ancora a terra e non era stato soccorso: lo davano per morto. Poi ha aggiunto un altro passaggio chiave. Qualche tempo dopo, ha detto di essere stato portato nel carcere di Cuneo per riconoscere alcuni brigatisti. Ascoltando, ha riconosciuto alcune voci. A fine incontro il generale Dalla Chiesa gli ha detto: “Se vuole vivere più a lungo, si dimentichi di queste cose”».

Lei ha anche parlato di patto di non belligeranza tra Br e Stato.

«A sei mesi dal conflitto a fuoco c’è stato solo silenzio. Un silenzio che, per me, ha fatto ancora più rumore. Le indagini sembravano inconcludenti, come se non ci fosse la volontà di andare avanti, per non farsi male e scoprire verità scomode. Anche all’interno delle Br c’erano dei conflitti: la morte di Mara Cagol ha segnato una svolta all’interno dell’organizzazione, sono cambiati i leader. Tant’è vero che il memoriale di Azzolini, che raccontava dettagliatamente ciò che era successo a Cascina Spiotta, serviva proprio per informare Curcio e tutti i brigatisti».

Che cosa non abbiamo capito degli anni di piombo?

«Che la violenza non porta a nulla, e tacere non porta a capire i propositi di nessuno. Infatti, gli stessi brigatisti da tanti anni non rivelano nulla. Pentimenti non ce ne sono, nessuna volontà di collaborare con la giustizia per fare pace con il passato. E questo non è un buon esempio per le future generazioni».

Ha qualcosa da dire ad Azzolini?

«No, assolutamente. Non voglio parlargli. Se fosse stata una persona degna di questo nome, avrebbe potuto collaborare, aiutarci, essere vicini ai sentimenti della nostra famiglia. Se è venuto fuori adesso è perché si è trovato con le spalle al muro. E non ha nessun rimorso».

Sua madre come ha vissuto questi anni?

«Per lei sono stati anni difficilissimi. Aveva 36 anni, tre bambini. Siamo subito tornati a Pescara, dove abbiamo vissuto la maggior parte della nostra vita. Già a settembre del 75 sono andato in collegio dei padri Somaschi, a San Mauro Torinese, vicino alla basilica di Superga. Sono stato un anno, poi sono tornato, perché lei mi voleva con sé. Mia mamma ha vissuto non con la stessa rabbia che avevo io, perché ero alla ricerca della verità. Lei non ha mai seguito le varie vicende giudiziarie, si è rassegnata a questo grave lutto. Rimanendo sempre con un ricordo nel cuore».

Bruno, se l’è mai presa con Dio?

«Quando ero più giovane me la prendevo con Dio. Oggi è diverso, sono più in pace: ognuno di noi ha un percorso, e risponderà per ciò che ha fatto in questa vita».

Cosa le manca di suo padre?

«Mi manca l’affetto paterno, quel calore e quella vicinanza. L’insegnamento che cercava di darmi sin da piccolo. Mi è mancato tanto da quel 5 giugno… Tante delle cose che ho fatto, le ho fatte in ritardo. Ho avuto tanti problemi psicologici, perché ci vuole tempo per metabolizzare. Ho perso anni scolastici, che ho poi cercato di recuperare, tutto sempre in ritardo. Avrei voluto studiare tantissimo, come desiderava lui, ma non è stato possibile».

Si può ricucire questa ferita?

«La ferita te la porti sempre dietro. Non si ricucirà mai, purtroppo. Mio papà non tornerà in vita, però rimane il ricordo, i valori e quello che ho cercato di fare: raggiungere la verità per rendere giustizia a lui».

Se lo avesse qui davanti, cosa direbbe?

«Gli direi che non ho perso mai la fiducia di trovare la verità, e che adesso sono soddisfatto di aver fatto questo passo.
Ho mantenuto e manterrò sempre questo rapporto che avevamo insieme. Non mi ripaga della sua assenza di tutti gli anni, ma l’ho portato sempre nel cuore.
E sempre lo farò».

Alessandro Venticinque

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