“Ricordo la sua espressione serena”: Parla il dottor Momcilo Jankovic, pediatra ematologo che conobbe Carlo Acutis

Momcilo Jankovic è stato responsabile del Day hospital di Ematologia Pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza (Fondazione Maria Letizia Verga) dal 1982 al 2016. Ha scritto quattro libri: Andrea ti aspetto a San Siro (Proedi Edizioni), Noi ragazzi guariti (Ancora Edizioni), Nati per vivere (Contrasto) e Ne vale sempre la pena (Baldini e Castoldi).

Attualmente è membro del Consiglio di amministrazione della Fondazione Maria Letizia Verga e si occupa di attività di ricerca clinica sulla qualità di vita dei bambini guariti e guida il settore della “Sport Therapy” all’interno dei progetti di ricerca dell’Ospedale. 

Nel 2006 ha incontrato Carlo Acutis e noi gli abbiamo chiesto di condividere i suoi ricordi di questo ragazzo che a settembre verrà canonizzato.

Quando ha visto Carlo Acutis per la prima volta? 

«Le circostanze sono state un po’ rocambolesche: era un weekend, ricordo che il ragazzo arrivò un sabato del 2006. Era stato mandato da noi dalla Clinica De Marchi di Milano, dove era stato ricoverato per presenza di sintomatologia emorragica. In quell’ospedale gli era stata fatta una diagnosi di leucemia: per la gravità del caso lo hanno trasferito al reparto di ematologia pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza. Aveva un’emorragia in corso per via della malattia che l’aveva colpito, una leucemia promielocitica acuta, molto grave, perché all’esordio può essere contraddistinta da questa forte sintomatologia emorragica tipica delle cellule malate che liberano delle sostanze che favoriscono queste emorragie. È stato da noi qualche giorno, poi per la gravità delle sue condizioni è stato trasferito in rianimazione».

Che cosa si ricorda?

«Un po’ per la gravità delle sue condizioni, un po’ per la velocità con cui è stato trasferito in rianimazione, non ho passato molto tempo con lui. Ma quello che mi ha molto colpito e che ricordo ancora oggi è la serenità che traspariva dai suoi gesti e dal suo sguardo. Era un ragazzo adolescente, come ne vediamo tanti, ma nonostante le sue condizioni molto critiche trasmetteva positività, un senso di tranquillità, di serenità, quasi di pace. Non era né agitato né nervoso. Non posso dire di aver avuto dei lunghi colloqui con Carlo ma lo ricordo molto bene: aveva un linguaggio non verbale che trasmetteva pacatezza, empatia immediata, non saprei come descriverlo meglio».

Ha avuto modo di parlare con i genitori? 

«Nei giorni del ricovero abbiamo parlato con lui; con i genitori, invece, ho avuto occasione di approfondire il dialogo molto tempo dopo, quando è stata fatta una commemorazione di Carlo nel nostro ospedale qualche anno fa. In quell’occasione ci hanno regalato un quadro molto bello con l’immagine di loro figlio che abbiamo nel nostro reparto. La madre ci ha raccontato bene la sua vita: mi ricordo quando descriveva il modo che il ragazzo aveva di comportarsi e di guardare all’al di là in maniera molto più chiara e decisa rispetto ai suoi coetanei».

Ha ripensato a Carlo in questi anni?

«Dopo quasi vent’anni mi ricordo ancora in maniera netta la sua gestualità, il senso di vicinanza che trasmetteva. Sono cose che ho apprezzato sul momento ma che assumono ancora più significato pensando all’epilogo della sua storia. Certi dettagli, come lo sguardo o la pacatezza del sorriso, li osservi sul momento ma li comprendi meglio nella loro particolarità solo alla luce di tutto quello che è successo dopo».

Lei ha dedicato a Carlo una poesia assieme al dottor Andrea Biondi…

«Biondi, che sarebbe diventato primario anni dopo, all’epoca era un medico che collaborava con me e in quei giorni lavoravamo insieme: anche lui è stato vicino a Carlo nel mio stesso modo. Io scrivo poesie dedicate ai ragazzi che mi hanno particolarmente colpito e con il dottor Biondi ne abbiamo composta una per lui».

Nella poesia leggiamo questo: “traspariva in lui quella sua fede in Dio, che aveva già voluto e voleva ancora trasmettere agli altri”. Ci spiega questo passaggio? 

«Per me Carlo aveva capito benissimo sin da subito che sarebbe morto a breve: nonostante questo, aveva una serenità impressionante nell’affrontare quello che gli si parava davanti. Le sue condizioni fisiche erano critiche eppure non si è mai lasciato andare alla disperazione. Io di ragazzi ne ho seguiti molti e quelli in condizioni più difficili può capitare che siano spenti, taciturni. Lui invece era sereno, con uno sguardo empatico, sempre alla ricerca della relazione con l’altro che aveva davanti nonostante la fatica che stava vivendo in quel momento. Un atteggiamento assolutamente non comune».

Qualcosa è cambiato in lei dopo aver visto Acutis? 

«Quando sei di fronte alla morte la fede può vacillare, però la spiritualità è un faro importante per molte famiglie e anche per noi medici, nel momento in cui viviamo delle situazioni così estreme. Per me la fede è stato un appoggio, senza dubbio. Io non sono praticante, però credo. Per cui, pur nella difficoltà di accettare un evento inspiegabile come la morte di un bambino, la fede è per me un appiglio concreto».

Ci racconta meglio del reparto in cui è stato ricoverato Carlo?

«Lui è stato ricoverato nel reparto di ematologia pediatrica intitolato a Maria Letizia Verga, che dà anche il nome alla Fondazione in memoria di Maria Letizia, la figlia del signor Giovanni Verga che nel 1979 era mancata per leucemia mieloide acuta. Il grosso merito di questa Fondazione sta nel fatto che il signor Verga, insieme a noi medici, ha dato vita a qualcosa che non finisse con una donazione o l’erogazione di materiali o di apparecchiature ma a un progetto che durasse nel tempo: infatti dopo 40 anni è ancora una realtà molto viva e attiva che coinvolge tantissime persone, anche grazie alla trasparenza della destinazione delle donazioni. Grazie alla Fondazione è stato costruito un residence per le famiglie che vengono da lontano e, all’interno dell’ospedale, un’intera palazzina che riunisce la degenza ematologica, il day hospital, il centro trapianti e il laboratorio di ricerca: un vero fiore all’occhiello da alcuni anni a questa parte. Adesso verrà costruita la torre di ricerca, perchè senza ricerca la medicina muore. La torre di ricerca sarà di dieci piani affiancati alla Fondazione Maria Letizia Verga e farà sempre parte dello stesso gruppo in modo da portare avanti i progetti che stiamo seguendo: l’applicazione dei farmaci e delle terapie innovative direttamente al bambino».

Zelia Pastore

LA POESIA

Un fulmine a ciel sereno 

È stato come una meteora con un passaggio rapido
nel nostro reparto: la leucemia lo ha portato via
ancora prima che potessimo conoscerlo un po’ bene. 

Ci sono però rimasti impressi i suoi occhi dolci,
il suo sguardo pieno di attenzione per quanto
gli stava accadendo, di coraggio, di amore,
di forte empatia. 

Traspariva in lui quella sua fede in Dio
che aveva già voluto, e voleva ancora,
trasmettere agli altri, a un suo prossimo incolpevole,
ma attonito di fronte alla battaglia che stava perdendo. 

D’altra parte una civiltà senza religione,
o una religione senza cultura, perde inevitabilmente
la propria coesione interna, in balia di un egoismo
molto prossimo al cinismo e alla disperazione. 

Il suo sguardo dolce, pur nel suo dramma,
ci ha insegnato molto: la vita, breve o lunga che sia,
va vissuta fino in fondo intensamente per se stessa,
ma anche e soprattutto per gli altri. 

Grazie caro Carlo… grazie!
La tua fede, basata sull’amore e sullo sguardo
sulla libertà e sulla giustizia, ci ha aperto la strada
verso una nuova vita. 

Andrea Biondi e Momcilo Jankovic
(i tuoi medici “per un soffio”)
Clinica Pediatrica e Centro di Ematologia Pediatrica, Monza

 

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