I volti del Collegio
«Quando sono arrivato al militare, ho visto persone andare fuori di testa semplicemente perché per ricevere del cibo (non particolarmente gustoso) era necessario mettersi in fila e attendere per un po’ di tempo. Io fortunatamente non ho mai avuto questi problemi. Grazie alla mia esperienza in Collegio, dove facevo code per qualsiasi cosa (mangiare, dormire, lavarmi) ho imparato la bellezza di vivere in una maniera più serena e la capacità di adattarmi a delle regole che non detto io ma che appartengono a una comunità e che vanno rispettate da tutti». Gianmarco Mandrini, 60 anni, ripensa con gratitudine al periodo in cui è stato ospite tra le mura del Santa Chiara. «Ricordo una sensazione di ordine, di casa, di pulizia e di cura, anche nella preparazione dei pasti. Lì ho imparato che la vita può anche essere vissuta senza avere perennemente il coltello tra i denti. Gianmarco è consulente e formatore Osm (Open source management) a Bologna. «Insegno ai miei clienti abilità come la vendita, il time management e la leadership personale». Ma è nato e vissuto ad Alessandria: «La mia famiglia sembra provenga dalla frazione di Mandrino».
Gianmarco quando inizia il tuo rapporto con il Collegio?
«Nel 1974. Io stavo frequentando il primo anno di scuole superiori per geometri, e i miei genitori si stavano separando. Dovevo studiare e mi serviva un contesto tranquillo, per questo la scelta cadde sul Santa Chiara. Devo ammettere che i primi tempi sono stati difficili. Allora c’era il detto: “Se non fai il bravo ti metto in Collegio!” (ride). Stavo in una camerata con 20 compagni di stanza dal lunedì al venerdì e rincasavo sabato pomeriggio. Sono stato lì i primi due anni delle scuole superiori».
E cosa ti ha fatto tornare il sorriso?
«Dopo il primo momento di adattamento, ho ritrovato la serenità. Coni miei compagni di stanza giocavo e ridevo mentre con i ragazzi che frequentavano l’università condividevo sia momenti di goliardia sia riflessioni più serie e profonde. Mi aiutavano anche a fare i compiti. La presenza dei sacerdoti era fondamentale: mi hanno fatto fare dei passi avanti nella mia educazione. Mi ricordo bene don Cuttica, il rettore, che mi ha consegnato un’immagine del prelato vigorosa e non “tetra” (ride). Era molto forzuto, piccolo di statura ma vigoroso. Quando ho visto la sua lapide all’ingresso mi si è stretto il cuore».
Ci sono dei bei ricordi che porti nel cuore legati al Santa Chiara e che vorresti condividere con i nostri lettori?
«Mi ricordo con piacere di tutti i sacerdoti, non solo del rettore. Per esempio ce ne era uno giovane, di 24 anni al massimo, che faceva da supervisore alla nostra stanza: non mi sovviene il suo nome, ma sono certo che non fosse in grado di pronunciare la “R”. Lui era proprio un pezzo di pane. In generale in Collegio gli educatori mi hanno insegnato la disciplina, che “tutto e subito” non è possibile. Adesso con il mio lavoro vedo imprenditori che hanno infinite disponibilità di denaro e che possono ottenere tutto subito, ma sono di fondo molto infelici. Un altro insegnamento è la necessità del tempo: se voglio ottenere una cosa, la otterrò non perché la voglio ma perché acquisisco le competenze necessarie per ottenerla. Io vado in moto e applico anche in quel contesto questo insegnamento: per avere buoni risultati anche su strada ci vuole dedizione, e per imparare dai propri errori ci vuole tempo».
E ora che emozioni ti suscita vedere il Complesso Santa Chiara riaprire dopo tanto tempo?
«Rivederlo aperto mi ha dato gioia: io mi affeziono ai posti in cui vivo e camminare per questi corridoi come facevo da ragazzo mi ha fatto piacere. Penso anche che per i ragazzi sia bello poter avere un luogo dove trovarsi che sia sotto l’egida della Diocesi, dove c’è una cura educativa come quella della direttrice. Anche l’aspetto di dare le stanze a prezzi calmierati per gli studenti è proprio un bel segnale».
Zelia Pastore
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