Le metamorfosi dell’autorità (paterna, ma non solo)
Riportiamo le risposte alle domande degli ascoltatori nel terzo (e ultimo) appuntamento dei Martedì di Quaresima. Relatori, Giuseppe De Rita e Renato Balduzzi.
Per la versione integrale dell’incontro, visitate il sito internet diocesialessandria.it/video
Quale rapporto rimane oggi tra i padri e il Padre? Le autorità terrene sono legge a sé stesse?
Balduzzi: «Da quello che abbiamo detto, sicuramente no, perché l’autorità è vera quando prova dentro di sé, e non dall’esterno o dall’alto, le ragioni per essere davvero autorità autorevole. Se è vero ciò che abbiamo detto, la risposta può essere soltanto quella di andare avanti il più possibile in una strada dove si valorizzi quel profilo della solidarietà orizzontale, quei doveri che non nascono da un assetto gerarchico, da un top down. Ma che nascono proprio dalla struttura costitutiva relazionale di ciascuno di noi, che si riverbera nella solidarietà. Quindi la risposta che mi permetterei di dare è in questa direzione, e credo sia l’unica direzione che possa tenere insieme tutte le contraddizioni dell’oggi».
La crisi dell’autorità in senso verticale, come non deve fare perdere il senso dell’autorevolezza nelle relazioni, che è anche crisi della forza della verità, del sapere e dei valori?
De Rita: «L’autorevolezza viene dalla capacità di stare in relazione. L’autorevolezza di un professore universitario non viene dalla sua bravura tecnica, dal saper tutto su un argomento o dalla sua durezza dalla cattedra… viene dalla capacità di stare in relazione con i propri allievi. E quindi è la relazione che crea autorevolezza, non l’autorità dall’alto».
Balduzzi: «Assolutamente sì. D’altra parte, se educare è “trarre fuori”, io stupisco il mio interlocutore se lo porto a trarre fuori il meglio di sé e a ricongiungerlo nella relazione con me. Non lo stupisco certamente per le mie qualità, per la mia capacità di affabulare, per le cose che so: quella è erudizione, che può colpire sul momento ma non entra dentro, non fa crescere».
Come può un credente creare relazioni buone nel proprio ambito?
De Rita: «Il credente ha un problema di relazione di fede. E la prima relazione di fede è praticamente verticale, perché deve credere in Dio, altrimenti non è un credente. Dopo di che quella è solo una base, credere in Dio è solo la base di una vita santa. Questa vita santa, invece, si attua attraverso un continuo rapporto con gli altri, che non è soltanto spendersi per gli altri, morire per gli altri. No, è vivere quotidianamente la dimensione del rapporto con l’altro. E il rapporto con l’altro è costitutivo di un modo di vivere da credente: se non c’è questo rapporto, la fede puramente in Dio Padre Onnipotente è preghiera, nascondimento, ma non è una fede vissuta nella realtà».
Balduzzi: «Credo che questo sia anche un modo per concludere i tre Martedì. In fondo, noi li abbiamo pensati ispirandoci alla “Patris corde”. Nella parte finale, Francesco ci dice che la felicità di Giuseppe è il dono di sé, cioè Giuseppe è davvero “uomo per”. Ecco, il credente, dopo avere irrobustito la sua credenza, è “uomo per”. Quindi dobbiamo avere questa continua capacità di dono di sé, che è facile da dire… qualche volta si sbuffa e si ha la tentazione di non pensare questo. La felicità di Giuseppe, scrive il Papa, sta nel dono di sé. E credo che questo possa essere la risposta a quella domanda profonda che è stata rivolta».
Le parole conclusive di monsignor Guido Gallese.
«Innanzitutto un grazie di cuore al dottor De Rita per queste bellissime riflessioni, e anche al professor Balduzzi per lo scambio reciproco, molto interessante, arricchente e stimolante. Io volevo sintetizzare alcune cose. Primo punto sull’autorità e tutti gli scarti: noi siamo la società degli scarti. Mai nella storia l’uomo ha prodotto così tanti scarti, fisicamente, come in questo periodo. E purtroppo li produciamo anche dal punto di vista umano. Così mi è venuta in mente, sul discorso dell’idea vendicativa della giustizia, la realtà delle due carceri di Alessandria. Va ripensata un po’ la nostra società, e anche il discorso della paternità va ripensato.
La paternità orizzontale, detta così, può essere un’immagine in cui qualcuno può ravvisare una perdita del senso dell’autorità o del fatto che in fondo si rimane senza guida. Ma anche ecclesialmente, e questa è una cosa che sento bruciare nella pelle in modo vivissimo, il pastore non è esterno alla comunità, ma è un membro della comunità. Gesù Cristo se n’è andato in giro per la Galilea, per la Giudea e per altri luoghi, insieme ai 12 apostoli, dormendo un po’ dove gli capitava. Non escludo che qualche volta abbiano passato le notti in fienile, non c’erano gli hotel 5 stelle. Hanno fatto una vita alla buona, molto semplice, ma con una grande profondità. La Comunità, la Chiesa in greco, è un corpo ed è il corpo di Cristo. E anche dentro il corpo di Cristo chi svolge la funzione di Cristo capo non è altro dal corpo. Non lo è nemmeno Gesù, figuriamoci chi ne svolge la funzione. Ma è un membro del corpo, perché nessuno di noi è di fronte al proprio corpo, ciascuno di noi è un corpo integrato completamente, la sua testa è parte del corpo. Questa è una cosa che dobbiamo ricordare, perché credo sia molto importante da capire, non si tratta di una perdita di autorevolezza. Ma da dove viene l’autorevolezza?
A me impressiona la Lettera agli Ebrei che, al capitolo 5, parla del sommo sacerdote “scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio”. E dice: “Cristo non attribuì a sé stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato» gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek»”. Ascoltando queste cose viene da dire: “Vedi, il sacerdote ha un’autorità dall’alto”. Ma subito dopo dice: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito”. Tra l’altro, la cosa divertente, quasi comica, di questo brano drammatico, è che fu esaudito perché è risuscitato, non perché non è morto, sia ben chiaro. Cioè, Dio ha un modo di esaudirci un po’ strano e diverso da quello che pensiamo. E continua: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.
Perché lui ha obbedito e imparato l’obbedienza dalle cose che ha patito. Il fondamento dell’autorevolezza sta proprio in questo: imparare l’obbedienza dalle cose che patisci. E questa è la grande lezione della Pasqua, che ci ricorda sempre che Gesù Cristo, che celebriamo vittorioso e risorto, in realtà se n’è andato da questo mondo in modo umanamente desolante. Ed è proprio per questo che ha salvato ogni uomo di ogni tempo, e possiamo dire che ha riscattato per Dio uomini da ogni tribù, lingua, popolo e nazione. Carissimi, io vi auguro di vivere la Pasqua nell’immersione in questo Mistero straordinario di un dono di sé, perché alla fine l’autorità viene dalla capacità di amare. Quanto più ami e doni te stesso fino alla morte, “non c’è amore più grande di questo”, quanto più incredibilmente, senza accorgertene, scopri di avere autorevolezza. Che il Signore vi accompagni, e vi faccia vivere una Santa Pasqua».
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