Padre Simone Bernardi da San Paolo, Brasile
Padre Simone Bernardi (nella foto qui sotto) nato a Pinerolo nel 1976, è un sacerdote del Sermig, la Fraternità fondata da Ernesto Olivero. Da 15 anni vive a San Paolo, in Brasile, e opera nell’Arsenale della Speranza, il progetto realizzato nella città brasiliana a partire dal 1996. Qui, ogni giorno, vengono accolti circa 1.200 “moradores de rua”, ovvero coloro che vivono per strada, senza una casa. Padre Simone, insieme ai tanti volontari, offre loro un aiuto materiale, del cibo e un tetto sopra la testa, e anche un supporto spirituale, accompagnando gli ospiti, uno per uno, per pochi giorni o per un anno. Un’opera di carità che non è venuta meno neanche durante il Covid. La seconda ondata della pandemia è arrivata in Brasile come un tornado: dai dati ufficiali si parla di 16 milioni di contagiati, e oltre 450 mila decessi. Di queste, si registrano 109 mila vittime solo nella città di San Paolo. Una situazione drammatica (basti guardare le immagini dei corpi seppelliti in fosse comuni), che continua ancora oggi, dove a regnare sono il caos e la fragilità delle istituzioni. Ma in cui è emersa l’estrema forza di realtà che, come l’Arsenale della Speranza, aprono le proprie porte a tutti. Senza chiedere niente.
Padre Simone, com’è la situazione in Brasile?
«Parliamo di un grande Paese, quindi è corretto dire che ci sono tanti “Brasili” (sorride). Il Brasile è un territorio immenso, è una grande federazione, con stati più poveri e altri più ricchi. Per esempio, San Paolo, dove mi trovo, è uno Stato nettamente più ricco rispetto ad altri. Ciò che emerge da questa situazione, e credo sia quello che si vede da “fuori”, sono le grandi diatribe e conflitti sulla gestione del governo. Sin dall’inizio, il presidente ha tenuto una linea negazionista, pensando che fosse giusto far circolare le persone e che tutti, prima o poi, avrebbero fatto il virus. Questo ha provocato degli effetti drammatici. Diversi stati municipali hanno altre idee, e questa poca armonia ha creato una gran confusione, politicizzando una situazione, già di per sé, complessa. E questo non ha fatto del bene a nessuno».
E la sua città?
«San Paolo ha avuto varie fasi, ha una struttura ospedaliera molto robusta, forse una delle migliori di tutta l’America Latina. Questa città ha sempre fatto conto su un buon numero di posti letto, ed è stata una strategia che ha permesso di affrontare la prima ondata della pandemia in modo diverso. Però, prima di dire alle persone di rimanere in casa, rispettando il distanziamento, è stato fatto prevalere il buon numero di posti letto. Nella seconda ondata, con la variante brasiliana, questo “castello” è crollato. E c’è stata una situazione davvero drammatica… Prima in zone complesse come l’Amazzonia, in cui si muore senza cure mediche, perché gli ospedali sono troppo lontani. E poi, di seguito, quando anche nelle zone più ricche delle grandi città è arrivata questa ondata, tutti si sono resi conto della gravità della situazione. Si parla di un numero di vittime grandissimo, oltre 400 mila morti. Una situazione tragica che esisteva già pre-pandemia…».
Proprio a San Paolo nello scorso anno si contavano circa 30 mila senzatetto, su 12,33 milioni di abitanti. Ora sono di più?
«Sì, perché la pandemia non ha creato solo effetti sanitari, ma anche economici. Questo è il popolo con cui lavoriamo, l’Arsenale della Speranza è al fianco delle persone di strada. E la fila di questa persone, di questo popolo, si è ingrandita. Nessuno ha i dati esatti: quei 30 mila sono l’ultimo censimento fatto dal Comune, ma i numeri sono più grossi. Famiglie accampate, bambini poveri che non hanno da mangiare, uomini soli senza dimora: scene già viste prima, ma che adesso sono aumentate».
Quante persone seguite?
«L’Arsenale dal 1996 accoglie persone che arrivano dalla strada. Parliamo di circa 1.200 ospiti ogni giorno, che durante la pandemia sono diminuite, ma girano attorno a questo numero. Del Brasile si conoscono le “favelas”, ma non esistono solo loro. Noi curiamo le persone che vivono in strada, per terra, con un cartone, e che dentro una borsa di nylon hanno tutte le loro cose. Qui è molto comune vedere una persona che dorme e vive in strada. Noi diamo un posto per dormire, farsi la doccia e mangiare. L’Arsenale però prende in carico queste persone: c’è chi resta solo alcune settimane, come in un rifugio, chi fa un percorso di accompagnamento sociale, che a volte dura oltre un anno. Diventiamo, così, una casa per chi non ce l’ha o non l’ha mai avuta. La rassicurazione nella pandemia era “rimanete a casa”, ma come fa chi vive in strada? Quindi siamo stati, e continuiamo a essere, fondamentali».
Come fa ad alzarsi al mattino e guardare avanti? Non le manca il fiato?
«Sicuramente è una situazione difficile: come se fosse una grande nave che tutti i giorni imbarca nuova sofferenza. Noi riusciamo a dare speranza, perché siamo una comunità e viviamo questo grazie a una spiritualità. È una nostra scelta di vita, e ci dà forza. Sono convinto che a fare le cose sia Dio, noi ci mettiamo solo a disposizione. E in un posto come questo lo senti, perché noti la differenza tra le nostre poche forze e il tanto che c’è da fare quotidianamente. Vedi come la provvidenza agisce, giorno dopo giorno. Questa è la forza per lavorare in comunità, anche nei momenti di crisi, come la pandemia. Non è solo padre Simone o un volontario singolo, ma quello che abbiamo deciso di fare insieme. Quello che dico non è retorico, ma è un’esperienza che facciamo nel quotidiano. Lo ammetto, senza problemi, se fossimo da soli saremmo già andati via da un pezzo. Ma ci siamo resi conto che la pandemia o l’affrontavamo insieme o eravamo veramente persi. E così è stato un periodo in cui tutti abbiamo imparato cose nuove».
Immagino sia cambiata anche la sua vocazione.
«Decisamente, direi che mi fido e mi affido di più. La pandemia è stata come un terremoto, silenzioso, ma come un terremoto. Sono piemontese, l’ho vissuta questa esperienza del sisma, e non puoi fare nulla. Puoi proteggerti, qualcuno ti dice come fare e dove andare, ma capisci che da solo non ce la fai. Ne esci solo se ti fidi e ti affidi. In questa situazione, allora, ho imparato a fidarmi di chi mi dava delle informazioni sanitarie, perché nessuno sapeva della pandemia. E poi l’affidarsi a Dio… Ci siamo sentiti piccoli, all’inizio ci siamo chiesti: “Come facciamo a proteggere mille persone dal contagio?”. Poteva essere una bomba. Allora ci siamo affidati, pregando e facendo discernimento. E tutto sta andando bene. Non sono un supereroe di turno, l’Arsenale non lo faccio io. Questa è la voce di una comunità che non si è fermata davanti alla pandemia, ma si è affidata».
Dove vede Dio in questa tragedia?
«Lo vedo tutti i giorni, indipendentemente dalla pandemia. Le persone che accogli ti insegano a essere ispirato. Dio lo vedo in chi viene a portarci un problema. Ricordiamoci che Gesù, nella parabola del Samaritano, era rappresentato sia dal Samaritano sia dal ferito. Credo che la necessità, la sofferenza, i problemi, ti obblighino a ricorrere e vedere Dio. Con lo Spirito Santo che ti suggerisce cosa dire e come agire. Allora ti accorgi che il Risorto cammina davvero in mezzo a noi. Non con fanatismo, ma nelle piccole cose del quotidiano. Nella pandemia la dose di sofferenza è stata doppia, tripla, quadrupla, ma Lui è stato al nostro fianco. Mi chiedi dove vedo Dio? In una mamma che tutti i giorni deve far mangiare un bambino, e bussa alla nostra porta piangendo».
Qual è l’orizzonte più vicino per il Brasile?
«Non è un bell’orizzonte. Questa guerra politica in atto, che ha usato la pandemia come un’arma, sta continuando. Le prospettive non sono di miglioramento. In Brasile i vaccini scarseggiano, nonostante abbia una grande esperienza di vaccinazione, molta più dell’Italia, per esempio. La lentezza del governo federale ha fatto sì che centinaia di migliaia di brasiliani perdessero la seconda dose. Questa situazione crea un’incertezza su tutto il futuro, anche in tutti coloro che ne stavano uscendo. A partire dai danni all’economia: molti non hanno più da mangiare e il Brasile rivede lo spettro della fame».
Si parla sempre di emergenza sociale delle zone più povere del mondo, Paesi che sono bombe pronte a esplodere. Anche il Brasile esploderà?
«Il Brasile non esplode, implode. È una cosa diversa. Vediamo forti proteste negli altri Paesi sudamericani, penso alla Colombia, al Cile o al Perù. Il Brasile è una cosa diversa: una lingua tutta sua, una storia particolare, caratterizzata dalla colonizzazione, e quindi un modo diverso di reagire. Un Paese cosmopolita in cui non vedremo quasi mai esplosioni di proteste. Però implode, per esempio, con la violenza urbana delle fazioni criminali. Laddove non arriva lo Stato, arriva qualcun altro a prendere il posto. In Brasile non c’è mai stata una guerra, ma c’è da sempre tanta violenza. Non è una rivolta della popolazione, ma un’implosione, in cui il popolo è la prima vittima. Nessuno prende la paternità dei problemi e il Brasile soccombe. Faccio un esempio… la Ford chiude tutti gli stabilimenti brasiliani, e migliaia di famiglie non avranno più lavoro. Il resto del mondo ne risentirà? Forse sì, ma gli altri poi andranno avanti. Il Brasile no».
Alessandro Venticinque
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