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Francesca e Beatrice: madre e figlia insieme nella battaglia quotidiana contro l’epilessia

Intervista alla neo presidente dell’International Bureau for Epilepsy

Per raccontare la storia di Francesca e Beatrice, mamma e figlia, serve fare un passo indietro agli inizi del 2000. Francesca Sofia (nella foto di copertina), pugliese di origini, ma trapiantata a Milano, è laureata in Biologia molecolare. Proprio durante i suoi studi, lavora a una ricerca sullo sviluppo del cervello e s’imbatte per la prima volta nell’epilessia. Già, l’epilessia: teniamola a mente, ma per adesso lasciamola da parte. Dopo decide di intraprendere anche gli studi di economia e management alla Bocconi, ma poi arriva una grossa opportunità lavorativa: la Direzione scientifica della Fondazione Telethon. Nel 2010 intanto nasce Beatrice, la sua seconda figlia: tutto sembra andare nella giusta direzione. Poi arrivano le nuvole. Quando Beatrice ha 20 mesi accade qualcosa di strano: una mattina è in braccio alla mamma, sul portone di casa, si irrigidisce ed entra in uno stato catatonico. I medici diranno che si tratta di epilessia. Una forma strana però, perché fino ai 4 anni viene controllata con i farmaci, poi Beatrice non risponde più alle medicine. La loro vita cambia, e nella vita di Francesca si presenta per la seconda volta l’epilessia. «Io sono passata dall’altra parte, io sono la persona che mi trovo davanti» dirà la giovane mamma. E proprio dall’altra parte decide di andare, diventando direttore scientifico e membro del consiglio direttivo della Federazione Italiana Epilessia (Fie). Negli anni fonda anche una piccola start up, in ambito biomedico. La loro vita va avanti, fino a nostri giorni, con l’arrivo della pandemia. Beatrice frequenta la quarta elementare e con la didattica a distanza aumentano le difficoltà e diminuiscono le ore di lezione. Così, senza supporto degli insegnanti, la mamma chiede al preside che sua figlia venga bocciata. Risposta secca: “No”. Allora Francesca, che non è tipo da arrendersi così facilmente, scrive al “Corriere della Sera” portando alla luce la loro storia. Nella sua lettera si legge: «Mia figlia lo ha capito che quel lavoro non interessava ai suoi insegnanti e non ha più voluto farlo». Poi con un gruppo di associazioni e famiglie riesce anche a ottenere una modifica sul Dpcm riguardante proprio la ripetizione dell’anno per i ragazzi con disabilità. Ma non è tutto. Alla fine del 2020 Francesca è stata eletta presidente dell’International Bureau for Epilepsy (Ibe), l’organizzazione internazionale che lavora a stretto contatto con l’Oms. Il primo presidente italiano e, dopo molti anni, non medico. Le nuvole, quelle che erano arrivate all’inizio di questa storia, non se ne sono andate via del tutto. Ma dietro di loro, intanto, è spuntato un bel sole.

Francesca, partiamo dalla sua scelta di lasciare Telethon…

«La mia è una storia caratterizzata dall’ironia della sorte (sorride). Dopo la diagnosi di Beatrice sono passata dall’altra parte: da lavorare nell’ambito della ricerca a essere direttamente coinvolta. Per diversi anni, oltre alla famiglia, non ho mai parlato della malattia con nessuno. Fino a quando nel 2014 conosco la presidente della Federazione italiana epilessie: dopo poche settimane lascio Telethon e mi unisco a loro. Avevo un lavoro di tutto rispetto, a tempo indeterminato, ma ho deciso di fare un salto nel vuoto. È stata come un’illuminazione, un risveglio. Mi sono sentita addosso la responsabilità di mettere a disposizione le mie conoscenze per scoprire di più sull’epilessia».

Qual è stata la sua reazione dopo la scoperta della malattia?

«A primo impatto ho avuto paura. Poi ho pensato che tutto ciò che mi immaginavo per la nostra vita non sarebbe mai accaduto. Tutte quelle prospettive, progetti, speranze, erano crollati come un castello di sabbia. Quella è stata la cosa più difficile da digerire. La direttrice della Fie mi disse: “Adesso vedrai la vita nera, fatta di disperazione, infelicità. Domani andrà molto meglio di così, abbi fiducia”. Allora, a un certo punto capisci che devi trascendere dalle tue paure più recondite, guardare in faccia le cose, e prenderti il bello di quello che c’è. Io sono di Bari e da noi si dice: “Viviamo tutti sotto questo cielo, quello che ci arriva lo prendiamo”. La vita è una sorpresa, una prova continua. Il dolore non andrà mai via, ma ho imparato che si può essere felici. Oggi la mia vita è molto più piena e felice, rispetto a quanto me la immaginavo quando ho scoperto della diagnosi».

E Beatrice che tipo è?

«Premetto che sono la peggiore mamma che potesse capitarle (sorride): non scendo a compromessi, sono molto rigida e abbastanza severa. Per questo posso dire che mia figlia è meravigliosa ed è la persona più generosa che conosco. Ma abbiamo notato che una bambina con l’epilessia fa paura».

Ovvero?

«Lei ha vissuto questi anni da sola, non ha mai avuto amicizie vere. E nemmeno sono state facilitate dagli insegnanti. Per esempio non ha mai ricevuto un invito per andare a casa di qualche “compagnetto” di classe. Anzi, quando siamo state noi a invitarli a casa, ci è capitato di ricevere dei “no”, con delle scuse improbabili, da qualche genitore. E parliamo della Milano “bene”, della Milano moderna, che dovrebbe essere sensibile a questi temi… Chiariamo subito che non è bello assistere a una crisi epilettica, non lascia indifferenti. Però ci sono tante cose che non ci dovrebbero lasciare indifferenti: anche un furto, un pestaggio per strada. Per questo credo che la conoscenza sia l’arma migliore contro il pregiudizio».

E proprio la scuola ha un ruolo chiave nella vostra storia.

«Esattamente. Durante il lockdown di marzo la scuola proprio non c’è stata. Da febbraio a Pasqua, Beatrice ha visto solo sei volte l’insegnante di sostegno per un’oretta. Mentre gli insegnanti di italiano e matematica sono totalmente scomparsi: non hanno fatto neanche una chiamata. Ma nemmeno i genitori della classe hanno avuto alcuna reazione. Così, ho visto mia figlia regredire. Ho chiesto un consiglio ai miei familiari, ai medici, agli avvocati, e abbiamo deciso che Bea avrebbe dovuto ripetere l’anno».

E l’istituto scolastico?

«Ho posto il problema al preside, chiedendo anche delle spiegazioni, mi ha sbattuto la porta in faccia. Mi sono sentita dire: “Sulle bocciature programmate decidono gli insegnanti”. Io lì mi sono vista persa, sono rimasta annichilita. Poi ho raccolto le idee e ho deciso di mettermi in “gioco”».

Una di queste idee è stata proprio la lettera al Corriere della Sera.

«Decidere di scrivere al Corriere è stata una scelta drammatica, l’ultima spiaggia. Mi è costato tantissimo farlo, sono azioni che non si fanno a cuor leggero. Sapevo di esporre davanti a tutti la nostra storia, mettendo in difficoltà anche mia figlia: oggi, nel mondo dei social, si leggono tante cose brutte. L’ho fatto per salvare il suo futuro, smuovere delle coscienze, e far arrivare il messaggio a “destinazione”. Ma siamo stati come i portavoce di tutti quei bambini fragili che, silenziosamente, stavano lottando contro questa situazione».

Ma non è tutto, vero?

«Siamo riusciti anche a far cambiare il Decreto legge (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 6 giugno 2020, ha modificato il decreto scolastico dell’8 aprile 2020, ndr). Così, agli alunni con disabilità è stata data l’opportunità di riscriversi allo stesso corso dell’anno precedente, per recuperare gli obiettivi didattici e inclusivi per l’autonomia. C’è stata una vera è propria mobilitazione di associazioni e famiglie per ottenere questo grande risultato».

Parliamo dell’epilessia. Quali sono i numeri?

«A livello globale parliamo di 50 milioni di persone che ne soffrono, mentre in Italia le cifre si aggirano intorno al mezzo milione. Ma ci si aspetta un forte incremento di questi dati. Si registrano picchi in età infantile e in quella senile. E con l’invecchiamento della popolazione, i numeri cresceranno».

Come si cura?

«Ci sono tanti farmaci che servono a controllare le crisi epilettiche. Ma non si tratta di una malattia curabile: non esiste un farmaco o una terapia che faccia guarire. Forse solo l’intervento chirurgico, in pochi casi, può essere risolutivo. Per la maggior parte si passa invece all’utilizzo dei farmaci. Circa un 60/70% degli epilettici risponde bene ai medicinali e riesce a condurre una vita integrata e normale. Esiste l’altra parte che non risponde e mai risponderà ai farmaci: milioni di persone e bambini che vivranno con le crisi per tutta la vita. Beatrice è una di queste…».

La tecnologia può venire in aiuto?

«Vedo delle grosse opportunità nell’interazione tra medicina e tecnologia. Pensiamo all’intelligenza artificiale o agli algoritmi. In particolare si sta parlando della “machine learning”, un meccanismo che riuscirebbe a prevedere una crisi epilettica. La maggior parte dei genitori dorme con i figli, anche adulti, perché una crisi non controllata potrebbe essere fatale. Capite bene che se riuscissimo a “intercettare” una crisi le nostre vite cambierebbero».

Con l’arrivo della pandemia, la ricerca è stata messa in secondo piano?

«Questo è l’aspetto che mi preoccupa. Ho raccolto alcuni dati sui movimenti sulla ricerca in Italia e Europa, tutti vanno in un’unica direzione: il Covid. Da noi, anche fondazioni che si occupano di malattie diverse, hanno donato per l’emergenza pandemica. Tutti hanno cambiato i loro obiettivi. Ed è giusto, in questo momento. Ma mi domando: proprio tutti ci si deve mettere a finanziare la ricerca sul Covid, quando ci sono dei “giganti” del mondo scientifico che stanno lavorando, anche con investimenti immensi? Oggi non ci possiamo permettere di vedere l’epilessia come una malattia negletta in termine di donazioni, la nostra comunità sta subendo un danno enorme».

Che lavoro svolge la Federazione italiana epilessia?

«Partiamo da un lavoro di coordinamento con tutte le associazioni sul territorio, passando all’interazione con il Ministero ed enti pubblici, e sostegno alla ricerca. Fino a fornire supporto e consiglio legale, per tutti coloro che vivono in questo mondo. I malati e le loro famiglie sono tanti, i mezzi pochi».

Lei dice: «Io sono passata dall’altra parte, io sono la persona che mi trovo davanti». Solo quando ci troviamo direttamente coinvolti comprendiamo tutte le difficoltà del problema?

«Dovremmo chiederci: come si fa a vivere in un mondo che soffre così? Come posso essere felice se il mio vicino è in condizioni inaccettabili? Da qui si deve ripartire, per creare un nuova concezione sociale. Spesso guardo anche gli altri genitori: tutti pensiamo di star crescendo il nuovo Einstein o Elon Musk (sorride). Ma non capiamo che questa concezione della vita condanna loro all’infelicità. Io, invece, sono fermamente convinta che non si possa essere felici da soli. Andiamo tutti verso un’unica direzione, ma bisogna stringerci uno con l’altro».

Lei oggi è contenta?

«Sì, felicissima. Mi sento una persona fortunata. La malattia non è una benedizione che arriva a persone dotate di potere, fuori dal comune, in grado di poter sostenere queste prove. La mia famiglia è battagliera, ma non siamo stati designati o prescelti. La malattia non è un “premio”, è l’opposto, è un male e lo è sempre. Al tempo stesso, però, ho imparato a vedere l’opportunità in tutto. La malattia mi ha insegnato che il vero ostacolo è la strada e quello che troviamo lungo il percorso diventa la vita. E la nostra vita, la nostra strada, ce la stiamo facendo con le nostre mani. Giorno dopo giorno».

Alessandro Venticinque

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