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«L’unica soluzione è imparare a perdonare»

Andrea Avveduto, responsabile della comunicazione e relazioni esterne di “Pro Terra Sancta”

Ancora guerra, ancora sangue, ancora morti. Il conflitto israelo-palestinese scoppia in un momento già drammatico per il nostro mondo. Cogliendo tutti di sorpresa, con una violenza inaudita e una modalità inedita. Apre scenari agghiaccianti, che vedono profondamente implicate le potenze mondiali, in un vero e proprio punto di non ritorno. A pochi giorni dall’attacco di Hamas a Israele, ci siamo messi in contatto con Andrea Avveduto (nella foto qui sotto), giornalista e responsabile della comunicazione e relazioni esterne di “Pro Terra Sancta”, una organizzazione no profit che realizza progetti di conservazione dei Luoghi Santi, di sostegno alle comunità locali e di aiuto nelle emergenze umanitarie. Anche lì, da sabato, è tornata la guerra. Con il sangue e i morti.

Avveduto, qual è l’ultima volta che lei è stato in Israele?

«Sono tornato due settimane fa da Gerusalemme, la situazione era tranquilla. A Gaza, mi dicevano, il periodo era abbastanza “strano”. Ciò che stiamo vedendo non è stato pensato in una settimana, ma da parecchi mesi, e l’effetto sorpresa è stato devastante. Sembra che i servizi segreti israeliani sapessero qualcosa, e che l’Egitto avesse avvisato. Ma indubbiamente nessuno si aspettava un attacco a sorpresa, e di questa entità. Forse è anche per questo che la situazione, due settimane fa, era tranquilla, non c’era nessuna avvisaglia».

Come possiamo guardare questo conflitto senza schierarci?

«Il giudizio ognuno tende a farselo, facendo il tifo per gli uni o gli altri. Ma questa è una visione parziale, perché se partiamo dal fatto che qualcuno ha ragione e qualcun altro ha torto, non ne verremo mai a capo. Ci sono delle ragioni da entrambe le parti, in questi anni gli errori sono stati commessi sia da Israele sia dalla Palestina. Per la cultura di questi Paesi, si tende sempre a voler posizionare la situazione sulla bilancia e arrivare alla pari: anche in termini numerici, con i morti. La famosa legge del taglione, tipica di queste culture, ha provocato già troppo sangue e non porta a nessuna soluzione».

C’è una soluzione a tutto ciò?

«La capacità di perdonare, nel senso di perdere qualcosa di sé per andare incontro all’altro. Oggi non dobbiamo guardare al conflitto per individuare dove sta la ragione, ma dobbiamo partire dalla dimensione umana. Ci sono persone che vogliono la pace e non riescono a ottenerla, perché da una parte c’è una classe politica miope, che ha bisogno di cercare il nemico per sopravvivere e conservare il potere. E, dall’altra, manca la consapevolezza che i popoli che abitano lì sono chiamati per vocazione a vivere insieme. Negli anni si è sempre cercato di puntare tutto sulla sicurezza, ignorando ciò che disse Benedetto XVI (nel discorso dell’11 maggio 2009, al palazzo presidenziale di Gerusalemme, ndr): ovvero che la parola “sicurezza”, etimologicamente, ha la stessa origine della parola “fiducia”. E la fiducia nasce dal fatto che si vive insieme e si condivide. Queste due realtà, invece, si sono polarizzate senza avere nessuna occasione di dialogo e incontro. Israele e Palestina hanno fatto in modo di staccarsi e non aprirsi. I negoziati, infatti, sono a un punto morto».

Sarà una guerra lampo?

«No, temo che sarà lunga, purtroppo. Non possiamo ancora fare analisi precise, ma possiamo immaginare che sarà lunga. Quello che è accaduto è un fenomeno inedito nella storia di Israele nell’arco di 50 anni. Non si parla delle solite schermaglie: parliamo di Hamas che ha invaso la zona Sud di Israele e ha fato più di mille morti. Dall’altra parte, il governo di Netanyahu risponde all’attacco e vuole ricompattare il Paese in un momento di enorme crisi e difficoltà. E poi dobbiamo considerare anche Libano e Iran. L’Hezbollah iraniano ha guardato con simpatia la mossa di Hamas…».

Parla di un conflitto inedito: per quali motivi?

«Perché le altre volte tutto partiva da Gerusalemme e Hamas appoggiava gli scontri, “contraccambiando” con dei raid di risposta. Subito dopo intervenivano Egitto e Stati Uniti, facendo da mediatori. Adesso l’Egitto ha fatto una figura barbina, non è stato in grado di mediare, e Hamas sta compiendo una strage. E poi, come dicevo, ci sono nuovi attori che sono entrati nel conflitto: non possiamo non pensare al ruolo dell’Iran (e Iran vuol dire Russia), insieme ad altri fronti che potranno nascere. Mi viene da pensare che guerra mondiale non si nasce, ma si diventa. Il rischio è che possano contrapporsi i due grandi blocchi, Russia e Stati Uniti: si passa da una dimensione territoriale a una regionale e globale».

È possibile pensare alla pace in quella zona di mondo?

«Una pace lunga no, non ci sono possibilità né nel medio né nel lungo periodo. Io spero che questa situazione possa obbligare la comunità internazionale, le grandi potenze, a trovare delle idee nuove per cambiare le cose. Se non oggi, quando? Altrimenti dobbiamo aspettare che salti tutto. È stato evidente, dagli accordi di Oslo in avanti, che tutti i tentativi sono falliti. E, anno dopo anno, la situazione israelo-palestinese è stata meno rilevante per le istituzioni internazionali. Per questo i giovani palestinesi avvertono la mancanza di fiducia nel futuro. I palestinesi non hanno una voce e non hanno un luogo dove questa voce possa essere ascoltata. Gli israeliani, invece, vivono un cancro: continuando a guardare i palestinesi chiusi in un muro, in una prigione, vivono nella paura nel nemico. Sentendosi anche loro in prigione. Questa guerra non fa bene a nessuno».

A farne le spese sono soprattutto i civili.

«Sì, la guerra colpisce tutti: ebrei, musulmani e cristiani allo stesso modo».

Ha parlato con qualcuno che vive lì?

«Con il parroco di Gaza, padre Gabriel Romanelli. Lui ha partecipato a Roma al Concistoro del cardinal Pierbattista Pizzaballa, ma non è ancora riuscito a rientrare a Gaza, è rimasto bloccato in Israele. Ci ha scritto che la situazione è grave, in particolare, per i mille cristiani che abitano nella Striscia, che già vivono in una situazione di discriminazione. Adesso a loro manca, ancora di più, sostegno e supporto».

Com’è la vita dei cristiani in quelle terre?

«I cristiani hanno sempre portato uno sguardo diverso, che viene dalla fede: ovvero il perdono, la costruzione di ponti. E il dialogo, di cui parlavamo prima. I cristiani sono sempre stati una realtà molto piccola: l’unica cosa che possono fare è portare avanti la loro testimonianza e la loro fede. Credo sia uno sguardo necessario, in questo momento, per sradicare la legge del taglione e della vendetta. Guardiamo con attenzione alla loro testimonianza, soprattutto a Gaza, in cui la speranza e l’amore verso gli altri è più forte della guerra, del sangue, della morte. E dell’odio».

Alessandro Venticinque

COME AIUTARE LA POPOLAZIONE

L’associazione Pro Terra Sancta ha lanciato una raccolta fondi per stare accanto ai più fragili durante la guerra: «A partire da coloro che già assistiamo, come i bambini farfalla di Gaza più che mai bisognosi di assistenza».

  • Con bonifico bancario PRO TERRA SANCTA NETWORK Banca Popolare Etica – IBAN: IT 04 U 05018 01600 000017145715 Causale: Pace Terra Santa 23475
  • Con bollettino postale PRO TERRA SANCTA NETWORK Conto corrente postale n. 1057333393 Causale: Pace Terra Santa 23475

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