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Il Covid degli ultimi: l’India

Carlo Pizzati dal Tamil Nadu, India

Carlo Pizzati (in foto qui sotto), nato nel 1966 a Ginevra, è un giornalista e scrittore italiano che dal 2010 vive in India. Abita in un villaggio di pescatori a un’ora e mezza da Chennai, nello stato di Tamil Nadu, e da anni racconta il Paese asiatico su Repubblica e Stampa.

In questi mesi drammatici, i suoi articoli sono delle vere e proprie testimonianze che servono per comprendere meglio ciò che sta accadendo in India. I dati, poco affidabili (secondo diversi studi), dicono che il Covid ha contagiato 27 milioni di persone e ucciso 311 mila vittime. La maggior parte dei morti viene cremata su pire funerarie create all’aperto, mentre altri corpi emergono dal fiume Gange. E negli ospedali mancano ossigeno e posti letto: la cosiddetta variante indiana ha travolto il Paese mandando in tilt il sistema sanitario, già sofferente prima della pandemia.

Basti pensare che in India è presente un medico ogni 1.500 pazienti e un infermiere ogni 600, parliamo del doppio dello standard minimo stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità. Anche in questo caso, il governo centrale arranca, non trovando soluzioni concrete. E, mentre i potenti miliardari indiani fuggono all’estero, il resto del Paese rimane a combattere il virus. Ma non solo. In mezzo al dramma, alla paura e alla povertà, si è aggiunta anche la recente emergenza legata al ciclone Yaas. Un inferno che non sembra finire.

Pizzati, le immagini che vediamo dall’India sono drammatiche. È davvero così?

«Le immagini tragiche, purtroppo, corrispondono alla realtà. Soprattutto in alcune zone, parlo della capitale Delhi e di Mumbai, nello stato del Maharashtra. Ma l’India è davvero un continente a sé, e generalizzare è pericoloso. C’è un’attuale incapacità di fornire ossigeno e, a oggi, troppe persone continuano a morire. Il volontariato sta dando un grande aiuto in questa emergenza, ma anche i social media si stanno rivelando utili, perché sono uno strumento di ricerca di bombole e caricatori di ossigeno, medicinali, ma anche di posti letto in ospedale. Non vi è un effettivo coordinamento dello Stato centrale, e in tutto questo le decisioni sono affidate ai governatori degli Stati e delle città. Occorre allora capire come si è arrivati a questo punto, e come il governo si sta comportando».

Quanto influisce il fatto che l’India investe solo l’1% del proprio Pil sulla sanità pubblica?

«Questa è una responsabilità che va condivisa sia con la precedente amministrazione dell’Indian national congress (l’attuale opposizione minoritaria, che ha governato fino al 2014, ndr), sia con l’amministrazione Modi che da sette anni gestisce questo Paese. Perché viene fatta questa scelta? Perché si pensa che l’India sia un paese giovane e che il Covid sia una malattia che miete vittime solo tra gli anziani. Ma, come abbiamo visto con questa variante, la realtà è un’altra. Così si pensava anche negli anni prima della pandemia, non sentendo la necessità di investire sulle strutture ospedaliere. Quindi, nella gara allo sviluppo, viene più importante, per equilibri politici, diventare il massimo investitore di armi in Asia, senza però capire che circa 800 milioni di persone, che vivono sotto la soglia di povertà, non hanno un supporto medico. Solitamente proprio gli ospedali sono luoghi in cui si contraggono le malattie, non per colpa di eroici medici e dottori, invidiati da tutto il mondo, ma per via delle strutture ferme al periodo in cui l’India ha ottenuto l’indipendenza, parliamo del 1947… Ma adesso l’ondata è arrivata anche nelle zone rurali, dove una persona su due ha il Covid. Il dramma è che gli ospedali distano 30 o 40 chilometri, per questo la situazione nelle campagne è complicatissima. Nonostante questo, il governo ha deciso di investire altrove, cercando uno sviluppo per attrarre gli stranieri, provando a fare da sponda all’espansionismo cinese, per tenere il controllo dell’Oceano Indiano. Un Paese che ha la capacità di mandare 30 satelliti in orbita in un lancio, a 550 chilometri dalla terra, ma non riesce curare dalla diarrea, che è la quarta causa dei decessi indiani».

E, in questa situazione estrema, ricchi e potenti miliardari scappano…

«Sì, otto jet privati con a bordo multimiliardari indiani e i loro parenti sono partiti verso le residenze londinesi, evitando la chiusura dei voli dall’India del 26 aprile. Solo in questo territorio ci sono 209 miliardari. Uno di questi è il più ricco d’Asia e dell’India, Mukesh Ambani. Ma tra questi c’è anche Adar Poonawalla (figlio del fondatore della Serum institute of India, ndr), il più grande produttore di vaccini al mondo. Che cosa ci rivela la fuga di questi otto jet, prima che vengano “chiusi” i cieli? Una profonda crisi neoliberista che ha portato alla vittoria del governo Modi. Se la promessa era quella di abbracciare il libero mercato, con l’idea di fondo che tutti potessero arricchirsi, in questo momento si è visto quanto sia crollato il sistema. Chi è rimasto più scottato da questa situazione è la “borghesia” che guardava, e guarda, con grande ammirazione questi miliardari, che negli ultimi 20 anni si sono arricchiti. Un’illusione che è partita nel 1991, dopo il socialismo. A loro è stata venduta una miscela contraddittoria. Se da un lato viene mostrato il canone ortodosso dell’induismo, in cui devi accettare il tuo destino, devi essere un bravo e pio indù; dall’altro lato, con un profondo senso liberistico, in “salsa” americana, c’è l’illusione di poter comprare lo scooter, la tv o l’ultimo smartphone».

Come ha reagito la classe media al Covid?

«Si trova un po’ spaventata e stordita, non solo dalle morti del virus, ma anche da una forte delusione. Perché il Covid ha smascherato questa promessa di benessere, facendo emergere ancora di più un divario in-umano. Molte di queste persone, oggi, sono all’opera per trovare bombole d’ossigeno. Ragazzi di 30 anni che rimangono, non scappano, per aiutare i propri concittadini. Chi invece non ne viene fuori, sono questi signori miliardari a cui costerebbe così poco… Basterebbe 1 milione di euro ciascuno, che per noi sembrano tanti, ma per loro sono pochissimi, per costruire ospedali temporanei e una rete di ossigeno. Ho visto che Mukesh Ambani ha donato 100 tonnellate di ossigeno, ma la richiesta quotidiana per il Paese è di 15 mila tonnellate. In poche parole, ha offerto 11 minuti di ossigeno per tutta l’India, direi che non è abbastanza. E questo è sotto gli occhi di tutti. Anche se non a tutti i giornali e le tv viene permesso di fare il proprio lavoro: alcuni media mainstream sono stati intimiditi dal dire la verità, mentre altri giornali online e blog più piccoli portano alla luce la realtà. Ma credo che qualcosa si stia muovendo. Una prima reazione l’abbiamo vista con le elezioni del Bengala occidentale (svolte tra aprile e maggio, durante la seconda ondata, ndr), dove il Bharatiya janata party (Bjp), il partito di Modi, non è riuscito a spuntarla, perché penalizzato proprio dalla gestione di questo disastro».

Si parla anche di numeri non reali. Qual è la sua percezione?

«Lo vado dicendo da mesi, pur vivendo in una zona rurale, ma conoscendo bene le grandi città come Mumbai, Delhi e Calcutta, non mi sembrava possibile. Proprio leggendo questi giornali non di ampia distribuzione, emergevano commenti di medici preoccupati che denunciavano la poca affidabilità dei numeri. Era chiaro da più di un anno, ma ora sono stai fatti studi accurati. Per esempio, secondo i dati della professoressa Bhramar Mukherjee, della facoltà di biostatistica ed epidemiologia dell’Università del Michigan, le vittime sono state dalle due alle cinque volte di più, e che i contagiati sono undici volte maggiori rispetto a quanto dichiarato. È complesso sapere i numeri perché nelle zone rurali molti vivono in case isolate, nelle campagne. Magari alcuni muoiono in casa, nel giro di poco, nel proprio letto e senza ossigeno. A loro difficilmente verrà fato un tampone, ma scriveranno: “Morto di malattia”. Sapere la verità sarà davvero complesso».

Nel suo libro “La tigre e il drone” parla anche di fondamentalismo. Dove sta prendendo piede nel subcontinente indiano?

«In particolare nella “cintura” del nord dell’India, dove la vita è difficile, tra povertà e violenze, legate a conflitti sociali e religiosi. Ho cercato di dare un allarme in anticipo, partendo da una visione macroscopica. Talvolta futurologi e analisti tendono sempre a sminuire la tutela dei diritti civili, una linea che conviene molto a certi regimi asiatici, e che sta prendendo piede in tutto il continente. In India questa miscela velenosa di religione e nazionalismo ha rivoluzionato il credo stesso dell’essere indiano: ovvero, viene fatto credere che per essere indiano tu debba essere indù. Emerge così una realtà non laica, non pacifista, e anti-ghandista. Una visione della religione induista, non condivisa proprio da molti induisti, ma che ha avuto presa, ed ha visto un certo consenso, tra le masse di poveri, che in questo ideale vedono una ragione d’orgoglio. Ma tutta questa ammirazione non serve per nascondere, durante l’amministrazione Modi, i 32 milioni di poveri in più che hanno abbandonato la classe media».

Pizzati, come ne uscirà l’India?

«Per fortuna non faccio il futurologo (sorride). L’India sopravvivrà, ne sono convinto conoscendo la storia, il carattere e l’intelligenza di questo popolo. Non dimentichiamo che il 30% degli amministratori delegati delle grandi corporation mondiali sono di origine indiana. Nonostante la disorganizzazione, ne verrà fuori l’India, ma a un prezzo di vite umane alto, altissimo. Ce la farà, perché è sorprendente l’enorme forza di queste persone: un aspetto che si coglie a pieno non appena la si visita. Di fronte alle difficoltà, che non si possono nemmeno immaginare, gli indiani rispondono con una bontà e una dolcezza rare. La pazienza che va a braccetto con l’accettazione del proprio destino, che non è fatalismo. E credo che proprio con lo stile della vera filosofia induista, questo popolo riuscirà a uscirne».

Alessandro Venticinque

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