1. Con le Unità pastorali lei chiede un cambiamento radicale. Ma in che cosa consiste? Nel creare una struttura efficiente che offre “servizi”?
Il vescovo risponde.
«In realtà, come l’uomo è fatto di corpo e anima, anche le Unità pastorali hanno un corpo che è la struttura assunta storicamente nelle sue configurazioni tecnico-organizzative, e un’anima che è l’atteggiamento dei membri che ne fanno parte, la loro vita, la loro passione, il loro collegarsi insieme, il loro slanciarsi in una missione bellissima. E così, a seconda di come le guardiamo, le Unità pastorali possono assumere ora l’una ora l’altra connotazione. Ma in realtà le devono avere tutte e due.
Mi viene in mente questa immagine. Ricordo una notte passando in Corso Italia, a Genova, parcheggiai la macchina e scesi, perché vidi una cosa incredibile ai miei occhi: nella pista di pattinaggio c’erano tre pattinatori, due tenevano un nastro con il braccio tutto levato in cima, e un altro ci saltava sopra. Vuol dire che con i pattini riusciva a saltare sopra i due metri. Aveva una rampa alta 40 centimetri. E se a quei 2 metri e 30 tolgo i 40 centimetri di rampa, rimane comunque 1 metro e 90. La cosa è interessante; la rampa dava al pattinatore la possibilità di librarsi altissimo. Una cosa che sembrava magica, una farfalla che poi atterrava al suolo come se nulla fosse. Prendeva la rincorsa, saltava con la rampa e volava alto. Ecco, uso questa immagine per dire: l’organizzazione tecnica delle Unità pastorali è simile alla rampa, una cosa molto semplice, un piano inclinato di 40 centimetri, un po’ incurvato, ma che aiuta a cambiare direzione.
Così è l’Unità pastorale, in fondo è molto semplice. Ma questo è il pretesto, perché ripensando completamente la nostra pastorale mettiamo in opera una conversione nella fede, cioè nello sguardo della realtà alla luce di Cristo, nella speranza, la determinazione a non mollare, finché non otteniamo ciò che il Signore ci promette. E una carità nuova nelle relazioni all’interno delle comunità, che trovano nella novità delle Unità pastorali uno spunto per dire: “Sì, proviamo a ripartire tutti insieme su queste vie: la fede, la speranza e la carità“».
2. In che misura la nuova impostazione delle Unità pastorali è promotrice della conversione personale?
Il vescovo risponde.
«Impostate in un modo nuovo nel quale bisogna trovare un contenuto, sul quale bisogna condividere, ascoltarsi, pensare e proporre, le Unità pastorali diventano promotrici di una conversione personale. Perché ci rendiamo conto che ciò che vale di più non è cambiare una forma esterna, ma, insieme a una forma esterna, cogliere un’occasione per una conversione vera. Un momento in cui, veramente, faccio i conti con quella Parola di Dio che mi ha sempre provocato e che trova, nella transizione all’Unità pastorale, un’occasione per farmi cambiare veramente. Una buona volta».
3. La partenza ufficiale delle Unità pastorali sarebbe per settembre di quest’anno: non è un percorso a tappe forzate?
Il vescovo risponde.
«Se noi pensiamo di dover mettere in piedi le Unità pastorali come fossero un’opera ingegneristica, logistica, organizzativa, certamente partire a settembre sarebbe una follia. In realtà, la partenza a settembre vuol dire cominciare ad assumere un nucleo sostanziale di Unità pastorale, dentro il quale lavoriamo e pian piano arriveremo a un dunque, con il proseguire del Sinodo.
Perciò, in realtà, quando diciamo che le Unità pastorali inizieranno a settembre, non è che una volta che inizieranno allora cammineranno tutte benissimo immediatamente. Ma significa che noi a settembre cominceremo un cammino già con la struttura base dell’Unità pastorale dentro la quale ci muoviamo, e avremo anche la possibilità di verificare sul campo come andranno le cose».
4. Che fine fa, in questa nuova visione della Diocesi, il rapporto personale tra parroco e parrocchiani?
Il vescovo risponde.
«Chiaramente non sparirà questo rapporto personale tra parroco e parrocchiani: diciamo che il parroco avrà modo di frequentare le persone sul cui territorio celebra l’Eucarestia (e saranno più di quelle con cui ha a che fare adesso) e anche quelle che si occuperanno di quei filoni pastorali a lui affidati. Questo allargarsi del numero di persone non lo vedrei come un problema, se abbiamo intenzione di essere “Chiesa in uscita”, ma come un punto positivo. Certo, andrebbe ulteriormente allargato con le persone che sono “fuori dal giro”, ma questo poi dipenderà molto dall’attrattività delle nostre comunità».
5. Dal momento che i sacerdoti si alterneranno nelle celebrazioni, non c’è la possibilità che i fedeli seguano il loro prete preferito, come dei “supporter”?
Il vescovo risponde.
«Direi che questo è quello che già succede. Semmai questo fenomeno si ridurrà, perché se noi imposteremo le Unità pastorali facendo attenzione al fatto di avere un gruppo di persone con cui viviamo la perseveranza nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere, questo genere di perseveranza favorisce l’approfondimento di rapporti, non il legame con un prete che mi sta simpatico.
Ma tiene presente che il fedele non è uno che fa una caccia solitaria alla salvezza seguendo un prete, ma è un membro di una comunità che insieme cerca di vivere la santità proposta da Gesù Cristo. E questa è l’unica condizione in cui può riuscire. Mentre il fedele solitario, anche se segue un prete, non riuscirà con altrettanta facilità. Santi si diventa a grappolo: per questo ho messo nel mio stemma il grappolo, per indicare questa realtà. E quindi io credo che laddove già si fa questo seguire il prete che mi sta più simpatico, io credo che si comincerà a valutare anche di avere una comunità con la quale si maturi diventando santi, come grappoli d’uva».
6. Non le sembra di dedicare troppa attenzione a quello che succede all’interno delle parrocchie, e meno a quel che succede fuori? Che fine ha fatto la “Chiesa in uscita” di papa Francesco?
Il vescovo risponde.
«Questa è una domanda molto interessante. In realtà, quello della “Chiesa in uscita” è rimasto un bellissimo slogan, a parole molto utilizzato. Ci siamo però resi conto di quanto sia difficile viverlo. Se noi ci potessimo mettere tutti intorno a un tavolo virtuale con le parrocchie della Diocesi, e ci raccontassimo quando siamo stati “Chiesa in uscita”, ci renderemmo conto che coloro che hanno fatto davvero questa esperienza sono quelli che fanno una bella vita di comunità.
Perché è “Chiesa” in uscita, non “singoli” in uscita… Ed è veramente “in uscita” quando è espressione di una comunità! Ora, dal momento che le nostre comunità fanno fatica a essere tali, anche in virtù del numero esiguo (e questa è una delle ragioni che ci porta fare questa transizione verso le Unità pastorali), cercare di avere delle aggregazioni di persone che siano vera comunità cristiana ci dà la chance di essere “Chiesa in uscita”. Lo ripeto: stiamo parlando di Chiesa, non di singoli. Certamente ogni persona deve cercare di avere uno sguardo aperto verso gli altri, ma essere “Chiesa in uscita” chiede innanzitutto di essere Chiesa. Credo che il cammino delle Unità pastorali non diminuisca una capacità che già c’è, ma crei invece delle possibilità in più per essere davvero “Chiesa in uscita”».
7. Da oltre 500 anni nella nostra Chiesa il binomio parroco-parrocchia è stato inscindibile. Oggi lei vuole cambiare tutto… Non sta forse chiedendo troppo ai suoi sacerdoti, che sono stati formati a vivere (e a concepirsi) da soli?
Il vescovo risponde.
«Papa Francesco a Firenze (nel Convegno Ecclesiale del 2015, ndr) ci ha detto che non siamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca. È cambiata l’epoca. È cambiata. Dobbiamo rassegnarci al fatto che il mondo non è più lo stesso. Un dato statistico dall’ultimo Annuario Vaticano, aggiornato al 31 dicembre 2020: se andiamo indietro di 61 anni i preti nella nostra Diocesi erano il triplo. E dobbiamo renderci conto che noi abbiamo un problema serio, non possiamo prendercela comoda in un mondo che è cambiato velocissimo. È vero che in 500 anni il binomio parroco-parrocchia è stato inscindibile.
Ma qui nessuno mette in discussione il fatto che ci sia un binomio parroco-parrocchia. La vera differenza è che c’è una comunità di parroci con una parrocchia più grande. La vera differenza è che il parroco non è più un singolo (anche se un tempo aveva già dei viceparroci) ma è in una comunità. Come succedeva nella descrizioni degli Atti degli Apostoli o del Vangelo, in cui Gesù mandava le persone due a due, e chi andava a evangelizzare era solitamente una comunità composta da almeno due persone.
Non è che io voglia cambiare tutto: è cambiato tutto, per conto suo. Noi possiamo decidere di stare appoggiati pigramente alla ringhiera del nostro “Titanic” che sta affondando, fermi, a osservare. Oppure possiamo pensare che invece si possa cambiare qualcosa. Il Papa nell’Evangelii gaudium ci ha detto che dobbiamo essere audaci e creativi. Ripeto, non sono io, ma dobbiamo esserlo tutti noi. Non deve esserlo solo il Vescovo, audace e creativo, e che gli altri dormano pure. Dobbiamo essere audaci e creativi nel “ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità” (Evangelii gaudium, 33). Ed è proprio quello che faremo».