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«Vorrei insegnare l’arte della pizza ai bambini in difficoltà. E a San Gennaro chiedo…»

Noi napoletani dobbiamo nascondere la nostra tristezza, siamo condannati all’allegria

 

Luciano Sorbillo è nipote di Luigi Sorbillo, che nel 1935 aprì la storica pizzeria in via dei Tribunali 35 a Napoli. Oggi è un Maestro di quella “arte bianca” che promuove in tutto il mondo. Noi di Voce lo abbiamo incontrato

«L’olio non va mai messo sopra la pizza prima di andare in forno. Brucerebbe, perché ha un punto di fumo di 180°: dentro il forno si arriva a 250 o 300. L’olio va messo sotto, protetto dagli altri ingredienti, oppure a crudo a fine cottura». Luciano Sorbillo, il famoso pizzaiolo napoletano, è un fiume in piena. Starebbe a parlare per ore e ore del suo lavoro e della sua passione per la pizza. Luciano è nipote di Luigi Sorbillo, che nel 1935 ha aperto la storica pizzeria di via dei Tribunali 35 a Napoli. Oggi la loro attività di famiglia è un marchio famoso in tutto il mondo. E Luciano, maestro dell’arte bianca, porta in giro la sua passione e la racconta, mettendo sulla pizza le sue idee. Così come ha fatto a fine novembre, quando è stato ospite del “Forno in Frasca”, a San Salvatore Monferrato (via Frascarolo 18). Nella pizzeria di Manuel Solofra (nella foto qui accanto), pizzaiolo sansalvatorese e insegnante dell’Accademia della pizza, ha tenuto una degustazione di pizza gourmet. Noi di Voce ci siamo seduti al tavolo con Luciano e ci siamo fatti raccontare la sua storia.

Ti ricordi la prima pizza che hai fatto?
«Avevo 11 anni, in via dei Tribunali, a Napoli. Ogni giorno, di nascosto, rubavo due o tre palline dalla teglia dell’impasto e dalle 15 alle 17, quando non c’era nessuno, prendevo il disco di pasta e mi mettevo a stendere la pizza. Mio zio, che mi insegnava il mestiere, pensavo non sapesse di quei miei esperimenti… in realtà lo sapeva ma non diceva nulla. Un giorno ho capito che potevo stare da solo. Avevo 13 anni, la pizzeria era piena di ragazzi, turisti e studenti. Mio zio mi disse: “Esco un attimo, vado a comprare le sigarette e torno”. Tornò alle 17, e in quel momento capii che mi aveva dato l’assenso a fare le pizze, anche se ero un ragazzino. All’epoca il mestiere non si insegnava, si rubava!».

La passione della prima pizza è rimasta?
«Uguale. Anzi, oggi ancora di più. E sempre in prima persona, non mi piace guardare gli altri che lavorano».
Mai pensato di fare un altro mestiere?
«Mi sono laureato a 23 anni e mezzo, in Economia e commercio. Avrei dovuto fare un altro mestiere…».

Poi?
«Siamo una famiglia di 54 cugini. Dalla parte di mio papà erano 21 fratelli, 17 maschi e 4 femmine. Ho abbinato molto di quello che ho studiato al marchio di famiglia. Penso di aver fatto la scelta giusta, mi ritengo un uomo fortunato. Faccio quello che mi piace».

Qual è la cosa che ti affascina di più della pizza?
«La pizza è un piatto universale, unisce tutti. Il disco di pasta è uguale per tutti, le varianti, i “topping” che ci stanno sopra possono accontentare i palati di ognuno. E poi la si può riprodurre in qualsiasi posto del pianeta».

Qual è il posto più strano dove hai fatto una pizza?
«In Vietnam, dove ho trovato un’acqua molto, molto scura. Al primo impatto mi sono spaventato, facendo l’impasto: pensavo fosse inquinata. L’ho bollita e l’ho anche passata. Ma il risultato non è cambiato… Non cambia mai il risultato quando c’è la passione».

E la pizza più “orribile” che hai mangiato?
«Non dovrei dirtelo, ma l’ho mangiata a Napoli (sorride). Le pizze migliori, invece, le ho mangiate a Tokyo e a Monaco di Baviera. Questo perché ci sono delle persone che ci mettono la passione, l’anima, lo studio, e ottengono dei risultati a prescindere dal posto in cui realizzano il prodotto».

Ti dà fastidio l’abbinamento pizza-Napoli?
«Molto. Gli stereotipi non mi piacciono: Napoli non è solo la pizza, il Vesuvio, la sfogliatella. Napoli è Luciano De Crescenzo, Massimo Troisi, il teatro di Eduardo De Filippo, Bernini. È Pino Daniele, che è stato un mio grande amico».

Come lo hai conosciuto?
«Siamo cresciuti nello stesso quartiere. Conosco anche tutti i suoi fratelli: ognuno con un destino totalmente diverso dall’altro. La mamma di Pino ebbe 13 figli, ma non li poteva mantenere. Pino fu dato in adozione a due sorelle, due zitelle ‘ro quartiere, come diciamo a Napoli. Gli hanno dato l’opportunità di crescere in maniere sana, iscrivendolo al Conservatorio per studiare musica. È stato abbracciato da un destino diverso rispetto agli altri fratelli».

Di Napoli cosa ami e cosa odi?
«A Napoli non mi sento globalizzato, e questo mi piace proprio assaje. Un po’ la esportiamo noi, la globalizzazione, nel modo di mangiare e di pensare. Quello che mi dà fastidio è che siamo costretti e condannati a ridere sempre, a essere un popolo empatico, a entrare in sintonia con gli altri. Perché uno da un napoletano questo si aspetta: che sia simpatico, che rida, che “se ne fotta”. Perché trova sempre la soluzione al problema… Storicamente siamo un popolo che è stato massacrato, e quindi ci siamo abituati all’idea di trovare la soluzione. Dobbiamo conoscere più termini, più vocaboli, per analizzare e risolvere le questioni. Immagina un napoletano che anziché conoscere 2.000 termini ne conoscesse solo 200: non sarebbe più un napoletano. Noi pensiamo troppo, e dobbiamo pure ridere. Dobbiamo nascondere la nostra tristezza, siamo condannati all’allegria».

C’è una persona a cui vorresti fare una pizza?
«Mi viene difficile rispondere, perché l’ho fatta un po’ a tutti (sorride). A chi la farei? Visti i recenti fatti, la farei a una donna che può rappresentare al meglio la figura femminile nel mondo. Una donna che spieghi chiaramente che nessuna persona può permettersi di togliere la vita a un’altra».

Esiste questa donna?
«Nel mio immaginario sì: l’avrei fatta a Rita Levi Montalcini, mi avrebbe inorgoglito tantissimo. L’avrei fatta come la faccio ai miei figli, con la mano del cuore. Perché, secondo me, è stata una donna che ha rappresentato molto, ha dato lustro al nostro Paese. Non solo nella scienza, ma in tutto».

Hai un sogno nel cassetto per te, per la tua città?
«Ho ereditato da mia madre l’altruismo. Lei era marchigiana, quindi vedete che neanche io sono un napoletano 100% (sorride). Adoro i bambini, il mio sogno nel cassetto è realizzare una casa per dare accoglienza a chi non ha avuto la fortuna di avere dei genitori in grado di offrire una vita dignitosa. Se potessi, realizzerei un appartamento con una ventina di stanze per passare del tempo con loro, raccontando le mie esperienze, i miei giri per il mondo. E, perché no, insegnando loro anche l’arte della pizza».

A proposito: chi sono i pizzaioli?
«I pizzaioli, come i calciatori, possono lavorare in qualsiasi posto del mondo. Quando formo un pizzaiolo, gli dico sempre: “Ricordati che tu hai una grande fortuna. Il calciatore ce l’ha nei piedi, tu nelle mani. Potrai portare la tua arte in qualsiasi posto nel mondo”».

Pizzaioli si nasce o si diventa?
«”Pizzaiuolo” si nasce, mentre “pizzaiolo” si diventa. Io so di storie bellissime di persone che nella vita si sono dovute reinventare. Non solo l’ex detenuto, che ha scontato una pena lunga e si è riscattato imparando questo mestiere. Ma anche persone di alto ceto sociale, con un titolo di studio in tasca, che magari hanno abbandonato Ingegneria o Architettura per fare le pizze. E hanno lasciato una carriera che, probabilmente, sarebbe stata “stretta”. Così, oggi, rappresentano al meglio la categoria dei pizzaioli in Italia».

Perché Sorbillo ha avuto così tanto successo?
«Vengo da una famiglia di grandi lavoratori: 21 figli, tutti pizzaioli. Mio nonno avrebbe voluto 21 calciatori… In realtà è una storia che parte dal 1935: ogni figlio cresceva, imparava a fare le pizze e partiva a 14-15 anni. Chi è andato a Mestre, Padova, Treviso, Roma, o all’estero. Quello che guadagnavano lo mandavano alla mamma, a Napoli. E la nonna cresceva i figli che venivano dopo, così uno dietro l’altro si formavano i pizzaioli. Siamo una famiglia che ha “globalizzato” la pizza in Italia e in Europa, con tanto lavoro, sacrifici e rinunce. Non è come oggi, all’epoca era tutto diverso».

Oggi cos’è cambiato?
«Gli strumenti, innanzitutto. Una volta l’impasto si faceva a mano, nelle martore di legno. Si finiva alle 2 del mattino, perché l’impasto non si conservava nei frigoriferi, non c’erano ancora. Si faceva crescere l’impasto a temperatura ambiente, e quindi si lavorava di notte, con qualche grado in meno. Poi la tecnologia ha cambiato le cose…».

Per esempio?
«Grazie ai miei studi di Economia, ho potuto applicare il “food cost” alle mie attività. Ho realizzato una applicazione, con “Il Sole 24 Ore”, che permette a ristoratori e pizzaioli di conoscere il costo reale per la realizzazione del loro prodotto. Nella pizza c’è molta matematica: ci siamo accorti che la cucina è una scienza esatta, e dunque anche la pizza lo è. I dosaggi sono importanti perché garantiscono di avere un prodotto stabile tutti i giorni. È brutto pensare che il pizzaiolo non sia continuo e stabile nelle cose che fa. Questo dunque abbiamo portato nel mondo della pizza: pizzaioli più istruiti, che sanno ciò che fanno, riconoscono la qualità delle materie prime e, grazie al dosaggio esatto, riescono a realizzare un impasto sempre perfetto».

Qual è l’ingrediente che non si può “sbagliare”?
«Il dosaggio del lievito, perché consente la realizzazione del prodotto finito. Non è vero che una volta si usciva fuori per vedere il tempo e, in base all’umidità, si decidevano le dosi. L’ambiente di lavoro è sempre lo stesso, le varianti sono minime. Prima si improvvisava, ma oggi i pizzaioli sono professionisti. Noi abbiamo fornito una formula fissa sulla gestione del lievito, che permette di sapere quanto lievito occorre per far lievitare un impasto, in un determinato tempo. Ed è precisa al minuto».

Domanda scomoda: forno a legna o forno elettrico?
«Io sono il primo che ha sdoganato il forno a gas. All’epoca le associazioni di categoria si erano indignate (sorride)… oggi negli statuti dell’Associazione Verace Pizza Napoletana ci sono sia il forno a legna sia quello elettrico. È un po’ come chiedere: “Cabina telefonica o smartphone?”».

Il Comune di San Salvatore ti ha donato una targa. Cosa hai scoperto di questo paese?
«Ho scoperto che San Salvatore è gemellato con Agerola, dove esiste il miglior latticino del mondo, il provolone del monaco. Sarebbe bellissimo vedere qui un mini-villaggio della pizza, in cui tutte le pizzerie del paese si spostano in piazza con i forni. Penso a tre serate estive, con anche birra e buona musica: un laboratorio didattico con i bambini al mattino, e poi una gara per coinvolgere tutti gli amanti non professionisti della pizza. Io vi lascio questa idea: ci verrei volentieri!».

Ultima domanda. Se Luciano Sorbillo dovesse chiedere qualcosa a San Gennaro?
«Di fermare il bradisismo (lento movimento di sollevamento o di abbassamento del terreno, ndr) nell’area di Pozzuoli. Chiederei a San Gennaro di bloccare questo fenomeno, che colpisce tutti quelli che come me abitano a Pozzuoli. Ho vissuto due anni di bradisismo, mi svegliavo alle 4 del mattino per effetto delle scosse. Direi a San Gennaro di lasciare che 500 mila persone possano continuare a vivere nel loro territorio. Un po’ più tranquille».

Andrea Antonuccio
Alessandro Venticinque

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