Parla don Domenico Dell’Omo, prossimo Rettore del Seminario diocesano
Dal 25 agosto don Domenico Dell’Omo (nella foto), 57 anni, sarà il nuovo Rettore del Seminario diocesano. È stato ordinato sacerdote l’8 dicembre 2020, e due anni più tardi ha ricevuto questo incarico così importante per la nostra Diocesi. Ci siamo fatti raccontare com’è stato il suo Seminario, e cosa si aspetta da questo nuovo cammino.
Don Domenico, partiamo dalla tua esperienza in Seminario.
«Il mio Seminario è stata una scelta consequenziale al primo incontro che ho avuto con il Vescovo di Alessandria, monsignor Gallese, quando, uso un termine strano, ho fatto “coming out vocazionale” (sorride). Siamo nel 2022, dieci anni fa mai più mi sarei immaginato di trovarmi prete e, men che meno, di diventare Rettore, cioè formatore e guida di futuri sacerdoti».
Quando hai sentito la chiamata del Signore?
«Avevo il progetto di festeggiare i miei 50 anni regalandomi un bel giro intorno al mondo. Mi sarei anche preso aspettativa da lavoro, per togliermi questa “voglia”. Così, ho iniziato a programmare tutto. C’è da dire che io programmavo ogni cosa della mia vita: per tutto ciò che facevo, dovevo avere il piano “a”, “b”, “c”, sono arrivato anche ad avere un piano “f” (ride). Nel 2010, a 45 anni, ho fatto il passaporto in modo da avere cinque anni per pianificare il regalo che mi sarei fatto. Una persona mi ha chiesto: “Hai fatto il passaporto, dove andrai?”. La prima risposta spontanea che ho dato: “Andrò in Israele”. Da credente, pensavo di andarci con un pellegrinaggio organizzato, non da turista semplice. Però non capitava mai l’occasione giusta, c’era sempre qualcosa che impediva a questo viaggio di cominciare».
Finché arriviamo al 2013.
«In maniera quasi casuale e fortunosa, vengo a sapere che c’è il pellegrinaggio diocesano in Terrasanta guidato dal vescovo Guido, appena arrivato ad Alessandria. La cosa strana, che avrebbe dovuto “insospettirmi” un po’, è che non ho pianificato nulla. Sono partito senza prepararmi prima, e mi sono lasciato andare. Durante il pellegrinaggio è successa una cosa che ha riorientato la mia esistenza, in un momento e in un luogo particolare. C’è stato un accadimento, come un punto di non ritorno, che ha illuminato tutta la mia vita precedente… Preferisco non raccontarlo adesso perché non è il momento, ma lo farò. Anche in pellegrinaggio, l’ho tenuto per me e non ho detto nulla al Vescovo…».
E poi?
«Al mio ritorno, ho iniziato un percorso di riavvicinamento alla fede. All’inizio ho fatto da solo: durante il pellegrinaggio ho scoperto le Lodi mattutine, i Vespri, e ho integrato tutto questo con la Compieta, il Rosario e la Messa tutti i giorni. Un percorso da “autodidatta”, diciamo. Poi, dopo un allenamento di circa nove mesi, preghiera su preghiera, quello che avevo rimosso, per “autodifesa”, è riaffiorato. Allora ne ho parlato con il mio parroco del Cuore Immacolato, don Rino Bianchi, che mi ha subito messo in contatto con il Vescovo. A monsignor Gallese ho raccontato la mia decisione di intraprendere questo cammino. Vuoi sapere la sua prima reazione? Si è messo le mani nei capelli! Poi è stato qualche minuto in silenzio. E io ero imbarazzatissimo, non sapevo che pesci prendere, era la prima volta di fronte a un vescovo. Da subito mi ha detto quello che sarebbe stato il percorso. Ho cominciato con l’anno propedeutico al Seminario, che ho fatto a Torino dal 2014, e poi nel seminario interdiocesano di Betania, dal 2016. Fino all’ordinazione diaconale il 25 aprile 2020 e l’ordinazione presbiterale l’8 dicembre 2020».
Invece, sul lavoro come hai raccontato questo tuo cambiamento?
«Sul lavoro ho dovuto “fingere”, mettendoli al corrente della cosa quando ero già a buon punto. All’inizio non hanno reagito bene, non volevano agevolarmi in nessun modo, in particolare per l’anno propedeutico. Per cui abbiamo concordato che avrei usato tutte le ferie accumulate e permessi. Per concludere l’anno a Torino, mi hanno concesso l’aspettativa ed è stata rinnovata anche per gli anni del seminario. L’ultima volta che ci siamo incontrati, in cui ho comunicato che non aver più usufruito dell’aspettativa e che avrei continuato su questa strada, il mio datore di lavoro, bonariamente, mi ha detto: “Tu sei impazzito… ma se ci ripensi, in una delle mie aziende, il posto di lavoro per te ci sarà sempre”».
E i colleghi?
«Qualcuno è stato piacevolmente sorpreso, altri mi hanno detto: “Ritorna in te, pensaci bene”. Altri nella completa indifferenza, perché non li toccava. Con l’azienda sono ancora in contatto, per amicizia e affetto, ero con loro dal 1999».
Veniamo all’oggi. A fine 2020 sei stato ordinato, a quasi fine 2022 diventi Rettore del seminario. Hai bruciato le tappe.
«Eh, infatti la cosa mi inquieta… Da un lato continua lo stupore che si propaga da quel 2013. Uno stupore che si accompagna a una sana dose di timore e alla speranza che, se questa strada si sta aprendo, c’è un progetto, che non ho scelto io, al quale sono chiamato ad aderire nella libertà. Perché è il progetto che il Signore ha per me, in questa fase del mio ministero».
Le vocazioni al sacerdozio sono in calo da decenni…
«Io penso che il Signore continui a chiamare, l’ho sperimentato su di me, ma avevo il cuore e le orecchie indurite da altre attività. È vero che chi mette la mano all’aratro non deve volgersi indietro, ma se adesso riguardo la mia vita passata, alla luce di quello che sto vivendo, mi accorgo di tutte le volte che il Signore mi aveva dato una carezza o bussato sulla spalla. Ma io per tanti motivi, umani, non avevo quasi la capacità di rispondere, non ero pronto. O, forse, è diverso. Penso a quello che mi ha detto un collega di lavoro, padre di famiglia e credente, quando gli ho comunicato la mia scelta ed ero preoccupato perché non conoscevo il mio futuro, e lui: “Non preoccuparti, perché se il Signore ti ha chiamato oggi, vuol dire che è adesso che ti ha bisogno. A 20 anni non sapeva cosa farsene di te, a 30 neanche, a 40 nemmeno. Ti ha bisogno adesso, a 50 anni”. Io le chiamo “frozen vocation”, dico che il Signore negli anni di abbondanza qualcosa mette nel freezer, da scongelare nei momenti di magra (sorride)».
C’è un santo, o una santa, a cui affidi questa nuova strada?
«Sì, è santa Mariam Baouardy, monaca carmelitana palestinese vissuta nell’Ottocento e canonizzata nel 2017. Sono convinto che lei ci abbia messo lo zampino in tutto il mio percorso, ancora prima del viaggio in Israele. E continua a farlo ancora oggi. Spesso mi domando: “Io non la conoscevo… ma lei, come faceva a conoscere me?” (sorride)».
Andrea Antonuccio
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