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«Questa è la certezza c’è la vita eterna»

Il sacrificio dei tre vigili del fuoco

Venerdì in Cattedrale alle 11 i funerali celebrati dal Vescovo

Matteo Gastaldo, 46 anni, Marco Triches di 38 e Antonio Candido di 32 anni: sono loro i tre Vigili del fuoco morti lunedì scorso nella tragedia di Quargnento, facendo come tante altre volte il loro dovere. La nostra città si è scoperta ferita, addolorata e incredula, di fronte a un dramma dai contorni ancora poco chiari. L’unica cosa certa è la morte, crudele, di tre ragazzi: di fronte a un fatto così ineluttabile e misterioso, abbiamo chiesto al nostro vescovo una parola cristiana. Per non seguire sentimentalmente l’onda della tristezza e del ricordo (che poi con il tempo si dissolvono), ma per trarre da quello che è successo un giudizio di verità e di fede, utile alla nostra vita.

Eccellenza, cosa si può dire di fronte a tre ragazzi morti in questo modo?
«Il problema del senso della vita, ma ancora di più, paradossalmente, il senso della morte, attraversa tutta la storia dell’uomo. Questo senso della morte in realtà è qualcosa che cozza contro il senso che vorremmo dare alla vita. Come se l’uomo avesse una vita che ha una sua intelligibilità e una sua bellezza, e la morte facesse saltare i suoi tentativi di ricostruzione, di messa a fuoco del senso della vita, perché poi arriva questa morte a scombinare tutto».

Quindi la vita è una falsa promessa?
«È una promessa incompiuta, incompleta, nella quale ci rendiamo conto che non basta aggrapparci a quello che di bello abbiamo vissuto. Di fronte a queste tragedie il problema del senso è lancinante per tutti noi: io la sento, questa sofferenza che porta con sé il grido di dolore delle persone. È una cosa che tocca tutti, e che tutti attraversa. La cosa che mi colpisce, in questi casi, è che la Parola della croce, della morte e resurrezione del Signore, è una Parola che ha un senso. Non è la parola della vita beata, dell’edonismo e del “vogliamoci bene”. La cosa straordinaria è che Dio è entrato nel mondo e si è fatto inerme fino alla morte di croce. Tutto ha un senso nell’insistenza di Gesù sull’amore, nelle ultime ore della sua vita».

Cioè?
«Quando Gesù è alla fine, dice: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome” (Giovanni 12,27-28). E prima di morire: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Giovanni 15,12-13). Qui ci rendiamo conto che Gesù sta dando un senso alla sua vita: non solo un’accoglienza passiva dei problemi e delle difficoltà, ma un’azione “attiva” grazie alla quale io attraverso qualsiasi situazione, persino la più estrema, facendo della mia vita un atto d’amore».

E questo basta?
«Fin qui abbiamo una visione eroica della vita: chi cade nell’adempimento del proprio dovere è una persona che ha qualcosa di straordinario, questa è già una cosa bella, ma non ci basta. Non basta il ricordo dell’eroismo, perché vogliamo l’abbraccio, vogliamo la presenza di questa persona, che eroica lo era comunque, anche da viva. L’unica risposta che abbiamo è che Gesù parla della vita eterna come stato definitivo dell’uomo: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Giovanni 10,10). Possiamo anche citare il capitolo 1 di Giovanni: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Questa vita dà luce e illumina la realtà, e questa vita è la vita eterna. Questa è la certezza: c’è la vita eterna. La cosa antipatica è che non la possiamo toccare».

Nel Vangelo c’è anche la promessa di un centuplo quaggiù, che sembra venire meno di fronte a vicende come queste.
«Il centuplo però sta insieme alle persecuzioni, e queste non sono soltanto fisiche. L’Apocalisse ci dice che quelli con le vesti bianche sono passati attraverso la grande tribolazione: ma la grande tribolazione è la vita. Gesù è venuto a dirci che questa vita sulla terra è una tribolazione, e per questo lui è finito in croce. Ma questa modalità di passare attraverso la croce ci è molto ostica. Il centuplo quaggiù è dentro alla tribolazione. Gesù l’ha avuto il centuplo quaggiù?».

Questa domanda possiamo girarla a ognuno di noi. Lei ce l’ha il centuplo quaggiù?
«Io sì (sorride), e in mezzo alle tribolazioni. Nel senso che la mia vita è faticosa e complicata: ma più servo la mia diocesi accollandomi fatiche, problemi, difficoltà, morendoci amorevolmente dentro, più sperimento un centuplo. Non è un “va tutto bene”, ma è una cosa che si può sperimentare quando si seguono le parole del Signore. Veramente Lui ci dà un centuplo, perché quando noi riusciamo a definire un senso della vita, anche nella sua concretezza, ci viene donata una pace interiore che è l’esperienza più straordinaria che un uomo possa fare in tutta la sua vita. E questa pace non dipende dal fatto che stia andando tutto bene, secondo i nostri schemi umani. Si può navigare in questo mare in tempesta con una grande pace dentro».

Vuole dire qualcosa alle famiglie delle vittime?
«Voglio dire che il loro dolore schianta qualsiasi struttura umana. Voglio augurare loro di guardare il dolore in un contesto di senso autentico, affinché questa sofferenza non sia una ferita sterile che non si rimargina mai, ma sia un po’ come le piaghe di Cristo, che portano a una vita diversa ma in cui è possibile la pace».

Questi tre pompieri sono in Paradiso?
«Non mi piace essere chiamato in causa per “mettere” la gente all’inferno o in paradiso, perché non così voleva il Signore: lascio quindi a Lui il giudizio. Però sicuramente il momento della loro morte è stato un momento di offerta, di servizio: questo è un punto straordinariamente positivo ed è una parola detta a tutti noi. Una parola detta, scolpita nella nostra storia e nella nostra memoria, che dobbiamo custodire e tramandare».

Andrea Antonuccio

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