Intervista al nostro vescovo monsignor Guido Gallese
Eccellenza, di fronte alle sfide della nostra epoca sembra che i cattolici vivano a volte una sorta di “incertezza” nel valutare quello che accade. Un po’ come se la fede non producesse un giudizio in grado di reggere l’impatto con la realtà: un giudizio che illumini la società e la renda più vivibile per tutti. Lei cosa ne pensa?
«Sì, talvolta succede proprio così. Certo, dipende molto dai soggetti, perché è il “come” la fede si incarna in una persona che è discriminante. La fede porta a fare delle scelte, e dentro a queste scelte il cristiano si deve muovere spinto da quella che è la sua missione nel mondo, che è frutto di una vocazione. “Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri” (Ef 4,11). Quindi questo imbarazzo si coniuga da una parte con la fede di una persona, dall’altra con la sua chiamata. E su questi due binari bisogna capire da dove viene l’imbarazzo, che non è un segno positivo: anzi, è segno che qualcosa non sta “girando” in modo libero».
Che cosa intende?
«In questo tempo abbiamo perso molto il senso di questi ministeri della Chiesa, e non è un caso che il Papa in questo anno ci abbia posto davanti gli occhi il ministero dell’accolito, del lettore e, qualche settimana fa, del catechista. Nella Chiesa, che è un solo corpo, ci sono tante membra deputate a compiti diversi. Noi allora dobbiamo recuperare il senso di questa ministerialità con un inserimento pieno e vivo nella Chiesa, nella sua vita, nella sua azione pastorale, e nello stesso tempo anche nel mondo, sapendo che noi non siamo “del” mondo, ma siamo comunque “nel” mondo. Certamente per arrivare alla maturazione di un giudizio si richiede una maturità di fede che abbia un sapore ecclesiale, cioè il senso di essere un solo corpo, e di essere al servizio di questo corpo. Il quale corpo, a sua volta, si prende cura di ogni uomo. Credo che in questa prospettiva ministeriale dobbiamo fare tanti passi avanti… e i pastori, troppo spesso, hanno svolto un ruolo di supplenza indebita».
Esprimere una valutazione sul ddl Zan, per fare un esempio di attualità, è una questione di fede?
«Giudicare il ddl Zan è prima di tutto una questione di ministero, ovvero di servizio. Per cui la prima cosa che mi chiedo è: chi ha il compito nella Chiesa di occuparsi delle leggi dello Stato, ed eventualmente cambiarle o fare in modo che siano cambiate? Sicuramente non io, ma coloro che sono chiamati ad animare la realtà terrena, come insegna il Concilio Vaticano II nella “Apostolicam Actuositatem” (al numero 7, ndr). Un valido esempio, in questo senso, è l’intervista al professor Renato Balduzzi pubblicata sull’ultimo numero di Voce. Il problema è che il clericalismo del clero (sorride) nel corso dei secoli ha sottolineato la preminenza del ministero ordinato a discapito del sacerdozio battesimale, finendo per atrofizzare l’azione dei laici nel mondo. In tal modo la Chiesa è rimasta sguarnita per quanto riguarda l’esercizio del sacerdozio battesimale e di tutto quello che esso comporta, in termini di impegno, nei confronti della società. Per cui di fatto sembra che spetti al clero pronunciarsi sulla politica, sull’economia o sulla società in generale».
In sintesi, lei afferma che il clero ha tarpato le ali ai laici. Ma è solo colpa dei preti?
«A mio parere i laici sono ben contenti di nascondersi dietro le sottane del clero (sorride). Questo è comprensibile perché in realtà non si tratta di esibire un certificato di battesimo e dire la propria, ma si tratta di avere una profonda vita ecclesiale, essendo un solo corpo in Cristo, e avendone ben compreso il Mistero. E poi dire, di conseguenza, la propria… Questo solleva il tema della vocazione e del relativo ministero nel seno della Chiesa. A noi pastori, invece, pone il problema di una adeguata formazione dei laici a questo ministero».
Quindi il clero deve tacere, sempre e comunque, sulle questioni come il ddl Zan?
«Non mi sento di dire che debba tacere sempre e comunque: in fondo ogni membro del clero è anche un battezzato. Dico semplicemente che questo genere di ministero è tipicamente battesimale, e nulla ha a che vedere con il ministero ordinato. Ci tengo a evidenziare un pericolo: il fedele laico che si impegna in politica deve avere la chiara coscienza che non è lui, con le sue leggi, a salvare il mondo, ma Cristo! Cristo, che quando è venuto duemila anni fa non si è certo occupato di cambiare l’ordinamento dello Stato. Perciò chi svolge l’altissimo servizio della politica è teso a rendere questo mondo un luogo più vivibile, facendo tesoro del grande dono di rivelazione di Gesù Cristo che, come disse san Paolo VI nel suo discorso all’Onu del 1965, rende il cristiano “esperto in umanità”».
Che cammino occorre fare, dunque?
«Due cose: noi pastori abbiamo il compito di formare i laici a una autentica vita ecclesiale, guidata dallo Spirito Santo, come insistentemente ci sta insegnando papa Francesco. I laici hanno il compito di interiorizzare il Vangelo in un contesto di comunità, cercando di capire come Gesù si è posto nei confronti della sua società. La società cambia, ma Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre. Cambiano i modi in cui noi incarniamo Cristo oggi, modi che rispondono alle differenze presenti nella realtà in cui viviamo. La modalità con la quale declinare questo delicato rapporto deve rispondere alla guida dello Spirito Santo. E questa è una grandissima sfida».
Andrea Antonuccio
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