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Un senso diverso alla vita e alla morte

Intervista al nostro vescovo monsignor Guido Gallese

Eccellenza, il 18 marzo lei ha compiuto 58 anni. Un compleanno particolare…
«Sì, direi proprio un compleanno surreale. D’altronde più surreale ancora è stato dare la benedizione eucaristica alla fine della celebrazione di domenica scorsa dalla soglia della cattedrale di fronte a una piazza completamente vuota».

Nella sua omelia durante la Messa a un certo punto ha detto: «A noi viene lasciata una responsabilità sul vivere con prudenza e obbedienza questi tempi di ritiro, questa Quaresima particolarmente tranquilla che ci viene offerta». Come fa a definire “tranquilla” una Quaresima segnata dal coronavirus?
«Intendevo “tranquilla” nel senso che siamo in casa, al di là dello stress del virus, e questo ci sottrae dai “bombardamenti” della vita che solitamente ci prendono sul versante emotivo. Anche il virus ci sorprende sul versante emotivo, ma da un altro punto di vista, perché invece ci obbliga a una riflessione sul senso della vita. Senza l’agitazione solita, ma dovendo stare ritirati e avendo davanti lo spettro del virus, possiamo riflettere sull’esistenza e sul suo significato».

Uno “slogan” di questo periodo è #andràtuttobene…
«Non è vero che andrà tutto bene, perché il virus uccide. Forse è meglio dire: “Io speriamo che me la cavo”… “Andrà tutto bene”: o lo si legge in una chiave come quella che dà l’Apocalisse, e allora si può dare un senso diverso alla vita, alla morte e alla sofferenza (ma non credo sia la chiave della società di oggi); oppure è falso, perché è morta tanta gente e ne morirà ancora. È il punto pesante di questa situazione: quando la morte si avvicina alle persone che conosci e ami, diventa veramente dolorosa».

Che cosa possiamo imparare da quello che sta accadendo?
«L’uomo è tornato a scoprire che la morte fa parte della vita, che morire è un evento naturale. Il nostro mondo ha sempre mantenuto in questi decenni la strategia di esorcizzare la morte, distogliere lo sguardo da essa e concentrarsi su ciò che si ha, lasciandosi la “sorpresa” per l’ultimo momento. Un esempio classico è non chiamare il prete per l’Unzione perché il malato, anche quello consapevole della fine imminente, “si potrebbe spaventare”. Questo è scacciare la morte fuori dai confini del pensiero».

Come possiamo occupare al meglio il tempo in casa?
«Basta rispondere a questa sola domanda: come so stare con me stesso?».

Ce lo spiega?
«Io di fronte a me stesso che atteggiamento ho? So ascoltarmi, so guardarmi, mi accetto, mi stimo, mi voglio bene? Mi rendo conto dei miei difetti, c’è qualcosa che posso migliorare di me? Dio e le persone che posto occupano nel mio cuore? Non nelle mie azioni, ma nel mio cuore. E allora quando acquisisco una certa serenità di fondo non ho problemi. A san Luigi Gonzaga, mentre stava giocando a palla, chiesero che cosa avrebbe fatto se di lì a poco ci fosse stata la fine del mondo. E lui rispose così: “Continuerei a giocare a palla”. Se sto bene con me stesso, qualsiasi cosa stia accadendo attorno a me riesco a rimodellare la mia vita in modo differente dal solito senza perdere continuità. È la resilienza. È la caratteristica dei cristiani perseguitati, o tribolati, o… nella pandemia!».

E se le risposte sono sconfortanti?
«C’è il Vangelo».

Ma di fronte alla possibilità di morire il Vangelo basta?
«E a che serve altrimenti il Vangelo? È il senso della nostra vita rivelato in Parola».

Lei come sta vivendo questi giorni?
«Sono molto frenetici, mi prenderei volentieri un giorno di tranquillità. Lo stress è alto, anche per la responsabilità nei confronti dei fedeli: sia per la loro incolumità fisica sia per il loro benessere spirituale, che in certe situazioni sembrano collidere. Penso alla partecipazione alla liturgia, all’apertura delle chiese… con i miei confratelli vescovi del Piemonte e con quelli di tutta Italia abbiamo questa responsabilità. È sfaticante, arrivo alla fine della giornata che sono proprio stanco. Non ho il problema della noia: ho il problema di non avere tempo».

Andrea Antonuccio

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Guarda l’omelia del vescovo della III domenica di Quaresima

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