Don Milani ad Alessandria
Sono qui a ripercorrere alcuni semplici passi dell’operato di don Milani a servizio dei giovani. Attingo alla mia esperienza come docente di Religione cattolica presso le scuole superiori, come laica al servizio dei giovani nella Chiesa, come direttrice del Collegio Universitario Santa Chiara di Alessandria. In particolare, quest’ultimo impegno più tra tutti mi sollecita, quotidianamente, a “pensare” i giovani e ai giovani.
Sono felice che la mostra fotografica sia basata sull’esperienza della scuola di Barbiana: i giovani di Barbiana sono ancora, per certi versi, i nostri giovani, sono i giovani del 2023. E le intuizioni educative (tra le tante) di don Milani, evidentemente, sono e rimangono ancora oggi una risorsa per tutti noi: genitori, figli, educatori, consacrati o, come direbbe don Milani, l’educatore, il maestro, il sacerdote, l’artista, l’amante, l’amato sono la stessa cosa.
Che cosa c’è di ancora attuale nel suo messaggio, al di là della situazione sociale e politica dell’Italia degli Anni 50 e 60, ormai superata? Un elemento vitale del sistema educativo di don Milani era lo studio della lingua, italiana ma non solo: tutte le lingue. Le lingue come ponte per l’incontro e la comunicazione tra persone. Questa centralità della parola crea a Barbiana tecniche raffinate. Le regole dello scrivere sono: “Avere qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti; sapere a chi si scrive, trovare una logica su cui ordinarlo; eliminare ogni parola che non serve; eliminare ogni parola che non usiamo parlando; non porsi limiti di tempo”. Più rileggo queste regole più sento il dovere di restituirle ai nostri giovani.
Certamente non manca loro la parola, ma spesso sono parole scritte più che pronunciate (i social), o sono parole a vuoto, parole non vere, volte solo a guadagnare una manciata di “like”. Nella vita di Collegio ho concretamente scoperto che la parola, il dialogo costruttivo, è merce rara. Pur convivendo, ho visto giovani capaci di non scambiarsi neppure il buongiorno. Ho visto parole non dette creare tensioni, fraintendimenti e favorire l’immaturità. I nostri giovani, oggi, non sanno parlare, e al di là degli strafalcioni e di un lessico tante volte scurrile il vero dramma è l’incapacità di scambiare contenuti, di farlo in modo costruttivo, di farlo in modo aperto, autentico. Forse per questo in Collegio è nata l’abitudine del caffè in segreteria, un momento di pausa ma ancor di più l’occasione di parlarsi: a piccoli gruppi, tutto si trasforma nell’occasione di fare della parola un vero strumento della propria crescita, mezzo privilegiato alla risoluzione dei problemi, del racconto di sé, della cura e quindi dell’accompagnamento.
Quante volte, raccogliendo lamentele di vita quotidiana, mi sono trovata a chiedere agli studenti: sì, ma vi siete parlati? Se negli anni di Barbiana la prima necessità era un’autentica alfabetizzazione del giovane, oggi siamo di fronte a una versione 2.0 dello stesso bisogno: imparare l’italiano e le lingue, ma ancor più recuperare il valore della parola, il peso delle parole. Concludo lasciando a tutti voi un secondo spunto che don Milani senza dubbio ci ha consegnato. Compito della scuola di Barbiana non doveva essere quello di sfornare laureati, ma di far diventare cittadini sovrani gli allievi! Al cuore della cura educativa di don Milani stava la preoccupazione di rendere sovrane, sul piano della cultura e della scelta, generazioni di giovani di classi sociali inferiori. Rendere gli umili superiori: più uomini, più spirituali, più cristiani, più di tutto. Così diceva: «La scuola era (ed è) strumento privilegiato di elaborazione della coscienza personale e sociale: rifiutare questa prospettiva o non potervi accedere produce passività e conformismo».
Nell’ultimo triennio la dispersione scolastica anche a causa della pandemia ha purtroppo raggiunto livelli di criticità importanti, ma al di là di questo aspetto, pur vero, mi trovo spesso nelle mie classi a inizio anno a lavorare con gli studenti nel tentativo di rispondere a queste domande: perché dobbiamo andare a scuola? Perché nella ribellione tipica dell’adolescenza dovrei trovare sensato prendermi questa responsabilità? Che senso ha il mio essere qui? Rifiutare la scuola, o meglio, non coglierla come opportunità, è vivere da schiavi in un sistema che non capiamo a causa di un’ignoranza che tocca tutti i fronti della vita. Andare in fondo alle cose, ragionare con la propria testa, porre domande è l’humus culturale su cui si fondava il sistema scolastico di don Milani, sicuramente molto diverso dal nostro attuale modello.
Sento profondamente mio questo monito che, allargando un po’ il raggio, è poi il dovere di contribuire alla ricerca di senso sulla vita di ogni giovane. Negli occhi di centinaia di ragazzi intercettati nei miei anni di servizio ho sempre letto questa grande domanda: che senso ha il mio essere al mondo? Ecco il mio dovere: quello di stargli accanto, di stimolare domande sensate, di ascoltare le loro risposte, di camminare tra i loro dubbi e di indicare, se possibile, una strada. Come ha scritto don Milani: il maestro deve essere, per quanto può, profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. Su una parete della scuola di Barbiana stava la scritta grande “I care”. Un motto senza tempo ancora oggi: “Me ne importa, mi sta a cuore”.
Penso che la nostra azione educativa, sociale, pastorale verso i giovani oggi non debba mai omettere questo stato d’animo: mi importi, mi stai a cuore. Concludo ora veramente e con queste parole di don Milani: «Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola. […] Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola».
Carlotta Testa
direttrice del Collegio S. Chiara, alla presentazione della mostra