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L’interVista a don Bruno Bignami su Chiesa e lavoro

Don Bruno Bignami, Ufficio nazionale per i Problemi sociali e il lavoro della Cei

Nelle ultime settimane la cronaca locale e nazionale sta dando risalto ai recenti incidenti avvenuti sui luoghi di lavoro, tutti, purtroppo, con esito mortale. Un rumore che si è sollevato, ma che è solo la punta di un iceberg che conta quasi due vittime al giorno solo nel nostro Paese. Sulla tutela e i diritti dei lavoratori anche la Chiesa si è espressa e porta avanti, giorno per giorno, un’azione pastorale ben specifica. Anche se a volte non compare sulle prime pagine dei giornali. Ne abbiamo parlato con don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i Problemi sociali e il lavoro della Conferenza Episcopale Italiana.

Don Bruno, qual è lo sguardo della Chiesa sul lavoro?

«La Chiesa si è sempre interessata al lavoro, perché è parte della vita. Può sembrarci strano, ma non c’è persona che non lavori: anche chi non percepisce reddito in realtà è spesso attivo nella cura familiare o al servizio della società. Il lavoro immette la persona nel progetto di Dio per l’umanità e consente all’uomo di collaborarvi. La tradizione millenaria della riflessione cristiana sui temi sociali è sfociata poi in quella che ha preso il nome di Dottrina sociale della Chiesa: la Chiesa si è interessata e preoccupata della condizione dei lavoratori e del lavoro. E così la Dottrina sociale della Chiesa è divenuta chiave di volta del magistero sociale: dall’enciclica Rerum novarum che papa Leone XIII promulgò nel 1891 in poi, tutti i documenti sociali dei Papi hanno affrontato le tematiche legate al lavoro, all’economia e ai rapporti sociali. Il tema del lavoro ha attraversato tutta la Dottrina sociale della Chiesa, calandosi sulle evoluzioni di questo mondo, fino ad arrivare, in ordine di tempo, a papa Francesco con la recente enciclica Fratelli tutti».

Nei nostri ambienti si sente parlare poco di lavoro: fede e lavoro sembrano separati, come se ci fosse uno scollamento tra questi due mondi.

«Purtroppo sì, la situazione è questa! E ciò è legato al fatto che si guarda la fede in maniera disincarnata, quasi fosse fuori dalla storia. Si arriva così a pensare che i temi sociali siano “altro” rispetto alla vita cristiana: ma non è così. In realtà, il modo in cui noi cristiani viviamo il lavoro, la società, i valori della pace e della giustizia, dell’economia e della politica, rivelano la qualità della nostra fede e la sua capacità di incarnarsi dentro la storia, nella vita degli uomini».

Oggi tanti parlano di lavoro, dai sindacati ai cosiddetti “influencer”. La Chiesa ci dà un punto di vista diverso?

«È diverso, sì, perché la Chiesa dà un punto di vista che pone al centro la persona. E questo è un punto cardine della Dottrina sociale della Chiesa. Ciò non vale solo per la dimensione del lavoro, bensì per tutti quegli aspetti che toccano le nostre vite, in quanto esseri umani. Altri modi rischiano di essere ideologici perché finiscono con lo strumentalizzare la persona. Questa strumentalizzazione avviene o per fini politici o per fini economici, impoverendo così le relazioni sociali. La Chiesa, nella sua proposta, mette al centro la persona concreta, non idealizzata e invita tutti gli uomini e le donne di buona volontà a fare in modo che il lavoro risponda alla domanda di dignità di ciascuno».

L’attuale emergenza sanitaria ha acuito tante emergenze sociali che erano già in essere o latenti. La Chiesa oggi si spende in prima linea, ma non c’è il rischio di cascare nel compiere solo le opere tralasciando la fede?

«Io vedo di più il rischio contrario: la fede senza le opere. Come scriveva già san Giacomo apostolo nel Nuovo Testamento, la fede e le opere sono inscindibili. Prenderne solo una sarebbe una scelta di comodo. Come cristiani dobbiamo “abitare” una tensione tra una fede vissuta come relazione con Dio e le opere che diventano segno tangibile di quella fede che si incarna, anche nel servizio agli ultimi».

Recentemente ad Alessandria abbiamo avuto un incidente mortale su un luogo di lavoro. Don Bruno, cosa diresti alle famiglie di chi, ancora oggi, perde la vita facendo il proprio lavoro?

«Ogni persona morta sul lavoro è una tragedia. Sono drammi che non dovrebbero più capitare. Gli ambienti di lavoro sono luoghi di vita: occorre fare di tutto perché simili tragedie non si ripetano. È la vera attenzione che merita di essere posta antecedentemente a qualsiasi discussione sul reddito. Purtroppo, oggi assistiamo a un gioco al ribasso sulla sicurezza sul lavoro, sulla tutela della salute dei lavoratori e delle lavoratrici. Dall’altra parte, è importante rendere ciascuno responsabile affinché si viva al meglio l’esperienza lavorativa, per sé e per gli altri».

Su questo tema un datore di lavoro cristiano può fare la differenza?

«Ogni imprenditore, credente o meno, deve avere a cuore la cura dell’ambiente di lavoro come luogo di vita e di produzione, capace di generare economia. La tutela dei lavoratori dovrebbe attraversare tutta l’esperienza lavorativa nella sua interezza. Già nella seconda metà del II secolo d.C. la Lettera a Diogneto evidenziava come i cristiani abitassero le città del mondo, in mezzo agli altri e come gli altri. Questi sono temi etici che devono coinvolgere chiunque. Una persona credente, attraverso le sue scelte, dice chiaramente con i fatti che le scelte etiche evangelizzano, in uno spirito di incarnazione, e sono strumento di amore per gli altri. E allora il cristiano si spende senza riserve, sull’esempio di Gesù Cristo. La giustizia riguarda tutti, credenti e non. Ma il credente, attraverso quella modalità di rispetto e attenzione, rivela un modo di amare e diventa strumento di evangelizzazione».

Da anni ormai i giovani sono una delle categorie più colpite e più fragili sotto l’aspetto lavorativo. In tutto questo cosa fa la Chiesa?

«La Chiesa, in tutto il mondo, accompagna i giovani a comprendere che la formazione al lavoro non è una stagione della propria esistenza. Ormai la formazione ci accompagna in tutto l’arco della nostra vita lavorativa. Questa consapevolezza va trasmessa alle giovani generazioni, attraverso le realtà educative come gli oratori e le scuole. Ma in Italia, la Chiesa italiana lo fa anche attraverso il Progetto Policoro che ormai da 25 anni responsabilizza i giovani a prendersi cura della formazione, della ricerca e del sorgere di imprese, insieme con la cura del proprio territorio».

Don Bruno, in conclusione?

«Parlare oggi del tema del lavoro vuol dire mettere al centro sia una formazione forte, sia la propensione a “fare bene il proprio lavoro”, come modo di spendersi per gli altri. Oltre a questo, serve attenzione al mondo dell’impresa, per imparare ad avere gli strumenti per avviarla e per mantenerla: imprenditori non ci si improvvisa. Solo così la gente può vedere nel fare impresa un modo per realizzare pienamente la propria vita. Oggi abbiamo bisogno di lavoratori, di lavoratrici, di imprenditori e di imprenditrici. Perché senza coloro che fanno impresa non c’è lavoro, e senza chi lavora non c’è impresa che tenga».

Società, don Mazzolari e il Progetto Policoro

Don Bruno Bignami, classe 1969, sacerdote della Diocesi di Cremona, è direttore dell’Ufficio nazionale per i Problemi sociali e il lavoro dal settembre 2018. Ordinato sacerdote nel 1994, è stato viceparroco di diverse comunità cremonesi, per poi spostarsi a Roma nel 2000 per perfezionare gli studi in Teologia morale. Ha ottenuto il dottorato con una tesi sul travaglio della coscienza morale in don Primo Mazzolari (in foto qui sotto).

Tornato in Diocesi, ha ricoperto numerosi incarichi sia nella pastorale diocesana sia nelle comunità parrocchiali a lui affidate. È stato docente all’istituto teologico dei Seminari di Crema-Cremona-Lodi-Vigevano e gli Istituti superiori di Scienze religiose di Mantova e di Crema-Cremona-Lodi. Ha guidato, in qualità di presidente, dal 2010 al 2020, la Fondazione Don Primo Mazzolari, che ha sede a Bozzolo: di don Mazzolari rimane postulatore della causa di beatificazione.

All’interno dell’Ufficio nazionale, ha la delega come direttore nazionale del Progetto Policoro. L’esperienza, nata nel 1995 su intuizione del sacerdote piemontese don Mario Operti, per accompagnare i giovani nel complesso mondo del lavoro. Giunto al suo 25° compleanno, il Progetto Policoro si è diffuso sempre più, partendo dalle regioni del Mezzogiorno per giungere, nel 2018, anche nella nostra Diocesi.

Il Progetto Policoro

Il Progetto Policoro è un progetto organico della Chiesa italiana che tenta di dare una risposta concreta al problema della disoccupazione in Italia. Attraverso il Progetto, si vuole affrontare il problema della disoccupazione giovanile, attivando iniziative di formazione a una nuova cultura del lavoro, promuovendo e sostenendo l’imprenditorialità giovanile in un’ottica di sussidiarietà, solidarietà e legalità, secondo i principi della Dottrina Sociale della Chiesa. Nella nostra Diocesi è attivo dal 2018: appena ci sarà possibile ne parleremo anche su Voce.

Giorgio Ferrazzi

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